© Rosa Maria Corti (proprietà intellettuale diritti riservati)
La vita lassù in quella valle, estremo lembo della Diocesi di Milano, era sempre stata povera (persino S. Carlo ed il Cardinal Federico Borromeo erano rimasti impressionati da quella povertà) e così tutti erano costretti ad emigrare in cerca di lavoro. Settimio, detto Set per distinguerlo da tanti altri che avevano quel nome, per un po’ d’anni aveva cercato di resistere nella sua cascina sperduta in mezzo ai boschi, solo, con l’unica compagnia dei suoi animali: un piccolo gregge di pecore e capre ed un certo numero di galline che si assottigliava sempre più a causa delle incursioni di una vecchia volpe. Riusciva a sopravvivere con la raccolta dei funghi, il taglio della legna e un po’ di denaro contante che si guadagnava vendendo il formaggio ed offrendo i suoi servizi quando, nel giorno di mercato, scendeva in paese. Nella buona stagione, infatti, dopo tanta neve e freddo intenso, erano sempre in molti ad avere bisogno di lui per dare una bella ripulita alla cappa del camino. Ma la fame era tanta ed i soldi non bastavano mai…
Un giorno, dopo aver bevuto parecchi bicchieri di un vino rosso cupo che scaldava il sangue, si lasciò convincere da un vecchio magnano che sapeva rappezzare e stagnare così bene pentole e paioli di rame che alla fine parevano nuovi, ad abbandonare la sua valle per cercare fortuna in pianura. Partirono una mattina molto presto e mentre scendevano a valle il Set si voltò indietro parecchie volte; accarezzando con lo sguardo il Dolai, il bosco sacro che proteggeva il suo paese, pensava a suo padre, a suo nonno che, molto tempo prima, erano andati “via da cà” e sentiva un nodo che gli stringeva la gola. All’altezza della chiesa e del piccolo cimitero si voltò per l’ultima volta, dal monte scese con lo sguardo alla sua cascina, salutò il paese, poi allungò il passo.
Fu così che al grido di “spazzacamino!” e di “magnano!” il Set ed il suo compare girarono tutti i paesi della Brianza e del lodigiano. Si riconoscevano anche da lontano, il primo a causa di un nero berretto di feltro a cono calato sugli occhi e di un viso altrettanto nero (non si sapeva dove finisse l’uno e cominciasse l’altro), il secondo per via della “trida” che portava a tracolla, in altre parole la cassetta con incudinella, martello, polso, “ciodèra”, acido, ovatta, stagno. Lanciavano il loro richiamo per cascine e cortili, dormivano nei fienili o su cataste di fascine sotto portici aperti al freddo e al vento della notte e mangiavano nelle osterie. I bambini, quando trovavano il coraggio di avvicinarsi, ascoltavano incantati le loro tiritere: “L’è chi el magnàn ch’el vegn de luntàn, ch’el vegn de Purlèza, ch’el stagna, ch’el pèza, ch’el pèza de ram, ch’el mör de la fam”. Il Set per la verità veniva dalla Val Cavargna ma Porlezza, situata vicino al confine svizzero, nonché appendice della Diocesi milanese, era più conosciuta.
Anche se talvolta i due uomini erano guardati con diffidenza, poiché molti erano i girovaghi che vivevano d’espedienti, il lavoro non mancava e gli affari prosperavano; tuttavia il Set si sentiva spesso a disagio, era come se gli mancasse qualcosa.
Fu così che un giorno, all’epoca dei “cavalèe”, quando cioè i contadini erano completamente assorbiti dalla coltura dei bachi da seta, il Set decise di tornarsene a casa.
Mentre camminava lungo la mulattiera che da Carlazzo saliva a Cavargna facendo dondolare il bagaglio a spalla, osservava i ciottoli del selciato, sassi di fiume scuri che gli parlavano della fatica dei vecchi chini a segnare di sentieri i fianchi della montagna, ascoltava lo scroscio del Cuccio, il torrente alla sua destra e sentiva che tutto questo non aveva mai smesso d’essere suo nemmeno per un istante. Superata la “quadrelera”, la fabbrica di mattoni dove si sfruttava la magra vena d’argilla di una vicina cava, attraversata una serie di vallette che scendevano allegramente dal Monte Crivello, per gettarsi spumeggiando nel Cuccio, quando fu in vista della chiesetta di S. Ambrogio dei morti, il Set si riappropriò di tutti gli odori della sua valle, della sua ombra e sentì di essere di nuovo in pace con se stesso. La sua ombra, infatti, non era mai partita, non si era sentita di veder paesi sconosciuti, non avrebbe sopportato quel vino che sapeva d’amaro, non avrebbe capito quegli strani dialetti. Voleva continuare ad ascoltare i racconti della sua gente, i rintocchi della campanella che chiamava a raccolta la popolazione, custodire i sonni placidi e tranquilli dei fanciulli, godersi il profumo dei fiori che imbiancavano i prati e quello del fieno appena tagliato. S’era nascosta come meglio aveva potuto, in un camino ripulito per bene dal Set e, dal suo nascondiglio aveva continuato a collegarsi con lui, come una sorta di radar che, anche quando è buio, anche quando c’è tempesta, ti dà la direzione giusta. Quando lo aveva visto salire dal fondovalle gli era andata subito incontro, senza curarsi di quel poco di fuliggine che le era rimasta appiccicata, lo aveva salutato, senza bisogno di molte parole, poi, erano andati avanti insieme.
Chi avesse seguito l’uomo si sarebbe accorto di una camminata diversa, più sicura, perché finalmente aveva di nuovo con sé la propria ombra.