Fedele Confalonieri è nel suo ufficio di presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo. «La data di fondazione è 1387. Qui, tra le guglie, trovo lo spirito di Milano. La città: le arti e i mestieri, le corporazioni medievali e gli industriali del Novecento, la Chiesa e il lavoro».
Qual è il vero spirito di Milano, secondo lei?
«Chi ha un mestiere venga a Milano, diceva mille anni fa Ariberto d’Intimiano, il primo a tener testa all’imperatore. Oggi potremmo tradurre: chi volta el cùu a Milan, volta el cùu al pan».
Chi volta le spalle a Milano, volta le spalle al pane.
«Fisicamente non è una metropoli; ma della metropoli ha l’anima. Come Parigi, Londra, New York. Generazioni di persone sono arrivate qui dal resto d’Italia e del mondo; e sono diventate milanesi».
A chi pensa?
«Le faccio solo due nomi. Joe Nissim: ebreo di Salonicco, eroe di guerra, finito a Milano nel 1947, morto nel 2019 a cent’anni; l’uomo di Simmenthal, Rio Mare, Manetti&Roberts, un gruppo da 250 milioni di utili; siamo diventati amici da adulti, cosa rara; ha pure adottato una guglia del Duomo. E Indro Montanelli. Grande toscano, divenuto milanese. Gli piaceva tutto della città, anche il clima, propizio alla sua natura un po’ depressa. Apprezzava quel grigino di Milano, che ora non c’è più. Negli anni 70 però avevamo ancora la nebbia…
Lei è stato amministratore del Giornale, e Montanelli non l’avete trattato bene.
«Noi abbiamo salvato il Giornale, che aveva perso i tre miliardi di pubblicità garantiti da Montedison. Quello è il momento in cui Berlusconi comincia a fare politica, a modo suo, negli anni bui del terrorismo».
Cioè?
«A Montanelli davano del fascista; in realtà sul Giornale scriveva il meglio della cultura liberale europea, Bettiza, Frane Barbieri, Aron, Borges, Ionesco, Fejto. E Silvio lo aiuta, all’inizio lasciando le azioni ai fondatori. Aiuta don Giussani e i giovani ciellini, che all’università prendevano un sacco di botte dagli estremisti di sinistra. Su richiesta di Tognoli, Berlusconi rilancia il teatro Manzoni, comincia con l’Amleto di Lavia nella versione lunga quattro ore, dice ai milanesi: basta coprifuoco, ricominciate a uscire la sera. E poi le tv. E il Milan».
Montanelli però nel 1994 l’avete mandato via.
«È il mio cruccio. Lui e Silvio erano due primattori. Se li avessi riuniti attorno a un tavolo, forse sarei riuscito a trattenere Indro. Anche su Craxi c’era stata una discussione dentro il Giornale: Bettiza voleva appoggiarlo; Montanelli invitò a votare Dc».
come ricorda Craxi?
«Un grande politico. Uno che si era fatto le ossa sulla strada, sulla “calle” come diceva Gianni Brera. Era stato assessore a Sant’Angelo Lodigiano. Si era battuto per salvare Moro, contro la linea di Andreotti e Berlinguer. Aveva fermato gli americani a Sigonella. Magari avessimo oggi un governo in grado di tener testa agli americani…».
Draghi deve andarsene o restare?
«Meglio che resti. Certo, non è bello che un Paese sia commissariato; ma è il destino di chi ha troppi debiti. Però non mi piace la linea di Draghi sulla guerra, sulle armi. Noi siamo un popolo di santi e di navigatori; non di guerrieri».
Putin ha aggredito l’Ucraina.
«E io lo condanno. Chi spara per primo è sempre da condannare. Piango per i bambini uccisi. Ma non mi convince neppure l’attore, Zelensky. La guerra va fermata; anche perché il conto della guerra lo sta pagando l’Europa. E l’Italia per prima. Le sanzioni indeboliscono noi. La crisi del gas rischia di avere conseguenze gravissime: ci sono aziende che in autunno dovranno licenziare».
Penserà mica anche lei che la guerra sia colpa dell’Occidente?
«L’Occidente avrebbe dovuto fare di tutto per evitarla. Un Kissinger l’avrebbe evitata; Biden non è all’altezza. Johnson pareva la caricatura di Churchill. Avremmo bisogno di grandi diplomatici, che non ci sono. Portare la Nato fin quasi alle frontiere russe è stato un errore. Tutto mi sarei atteso dalla vita, tranne che dar ragione a Santoro…».
Torniamo a Craxi. I socialisti rubavano.
«Craxi non prendeva soldi per sé, ma per il partito. Guardi i suoi figli: Bobo non ha una casa di proprietà; Stefania sta bene, ma perché è senatrice e ha sposato un manager di successo».
È vero che lei era contrario alla discesa in campo di Berlusconi?
«È vero. Anche Craxi era perplesso: pensava che avrebbe preso il 7, al massimo l’8%».
Perché era contrario?
«Perché sapevo che ci avrebbero scatenato contro quello che poi è accaduto. Una persecuzione giudiziaria senza precedenti».
Forse perché sapeva che avevate i vostri scheletri nell’armadio.
«A cosa si riferisce?».
Non c’è forse un lato oscuro nel berlusconismo? Previti condannato per corruzione di magistrati, Dell’Utri per mafia.
«Concorso esterno. Ma io sono certo che Dell’Utri sia innocente. Questa storia dei soldi della mafia, poi, è una stupidaggine assoluta. Glielo dico perché c’ero. Luigi Berlusconi, entrato alla banca Rasini da ragazzo e uscito direttore, diede a Silvio la sua liquidazione per investire in un terreno. Il primo appartamento lo comprò mia madre».
Luigia Borghi, sorella di Giovanni, il fondatore della Ignis.
«Mio zio era un genio. Un Berlusconi con la quinta elementare. Suo padre, mio nonno Guido, faceva l’elettricista. Siccome era un po’ fascistino, dopo il 25 luglio andarono a rompergli le vetrine. Così sfollammo a Comerio, dove prima andavamo in vacanza. Il nonno e lo zio cominciarono a investire nei fornelli elettrici, poi nelle stufette, infine nei frigoriferi… Così, dal nulla, crearono la Ignis».
Giovanni Borghi aveva fama di essere un uomo duro.
«No. Aveva fiuto per gli affari. E divenne uno dei protagonisti dell’Italia del miracolo economico. La periferia di Milano era un’immensa fabbrica. In fondo all’Isola c’era la Brown Boveri, poi la Bicocca, con la Falck e la Pirelli…».
Il nonno paterno cosa faceva?
«Fedele Confalonieri era un prestinaio. All’Isola, che adesso è un quartiere trendy, vicino al Bosco Verticale; ma allora era di operai e di piccola borghesia. Il nonno lavorava tutti i giorni che il Signore mandava in terra, tranne il lunedì dell’Angelo e Santo Stefano».
Qual è il suo primo ricordo?
«I bombardamenti. Noi che scappiamo in cantina, e la mamma che corre in casa perché ha dimenticato le finestre aperte».
E l’incontro con Berlusconi?
«All’oratorio. Avrò avuto dieci o undici anni. Chi portava il pallone faceva le squadre. Silvio portò il pallone. Lo ritrovai a scuola dai salesiani, lui era un anno avanti. Andavamo a vedere il Milan di Nordahl, con suo padre: tram fino a Piazzale Lotto; poi una bella scarpinata verso San Siro. Cominciammo a suonare insieme».
È vero che lei lo licenziò dalla vostra orchestrina?
«Eravamo in cinque. Io al pianoforte, lui contrabbasso e voce. Cantava bene, ma era sempre in mezzo al pubblico a far ballare le ragazze. Aveva già il vizietto che l’ha poi reso celebre nel mondo. Mi prende ancora in giro: senza di me, sei dovuto andare in Libano…».
In Libano?
«Suonavo al casinò, sino alle due di notte, ci pagavano bene. Poi andavamo a cena a Beirut o a vedere l’alba tra le rovine di Baalbek. Un periodo da mille e una notte. Ma c’erano già i primi delitti politici, che annunciavano la guerra civile…».
Com’era Berlusconi da giovane?
«Uno che diceva una palla, e poi faceva di tutto per renderla vera. Un giorno una zingara gli predisse che sarebbe diventato presidente della Repubblica. E lui si mise d’ingegno…”.
Confalonieri, com’è davvero il suo rapporto con Gianni Letta?
«Squisito. Letta per dieci anni è stato il vero copresidente del Consiglio. Silvio esercitava la sua passione per la politica estera, in cui è bravissimo, pensi a Pratica di Mare, o a quando ammansì Gheddafi; e Letta governava. Poi certo, Gianni è molto Roma: Quirinale, Vaticano, ambasciate… Io sono un milanese».
Ed è considerato filoleghista.
«Io sono filoleghista. Bossiano. L’unità d’Italia è stata un errore. Pensi alle guerre d’indipendenza: nella prima Carlo Alberto parlava francese; la seconda è una vittoria di Luigi Napoleone; nella terza ci affondarono la flotta a Lissa… Perché la Marsigliese e God save the Queen emozionano più dell’inno di Mameli? Perché dietro ci sono i morti».
Anche Mameli morì per la patria italiana.
«Ma dietro il suo inno ci sono i quattro gatti della Repubblica romana del 1849. Gloriosi finché vuole; ma sempre quattro. I caduti della Grande Guerra non ascoltavano l’inno di Mameli. I martiri della Resistenza neppure».
Salvini non le piace?
«Mi è simpatico. Ha fatto risorgere la Lega. Ma ora dà l’impressione di parlare tanto e girare un po’ a vuoto».
La Meloni le piace?
«Molto. Da ragazza era pure lei un po’ fascistina; però adesso che le puoi dire? Ci proveranno, la attaccheranno. Ma se dovessi dare un consiglio a Silvio, gli direi di puntare sulla Meloni. È lei che può riportare il centrodestra a Palazzo Chigi».
Berlusconi è europeista, la Meloni populista.
«Io nel Silvio delle origini vedevo una punta di populismo: quel rifiuto del teatrino della politica, che un po’ è stato anche dei Cinque Stelle. Oggi Berlusconi dice tutte cose giuste: l’Europa, l’atlantismo, la moderazione. Ma ai poveri chi pensa? Ai ragazzi che non trovano lavoro e vanno all’estero? Agli italiani impoveriti dall’inflazione? La verità è che sarebbe il momento di fondare un grande partito conservatore, che vada da Gianni Letta e dalla Ronzulli, la nostra donna forte, sino a Salvini e alla Meloni».
Lei è stato presidente dell’orchestra Filarmonica della Scala. Come trova La Scala oggi?
«Per vent’anni abbiamo sostenuto la Filarmonica, comprando i diritti e trasmettendo i concerti su Rete4: ci costava due miliardi di lire l’anno. Alla Scala devono lavorare i grandi direttori: Claudio Abbado, Riccardo Muti, che ha fatto un Verdi straordinario. E devono lavorare i grandi registi, che rispettavano la musica: Strehler, Ronconi».
Invece?
«Invece sento dire: il Macbeth di Livermore… Calma: il Macbeth è di Verdi, semmai di Shakespeare. Cosa c’entrano gli ascensori? Un po’ di umiltà servirebbe a tutti. La mia ora di umiltà è quella che passo ogni mattina a suonare Beethoven, Schumann, Bach, Debussy, e mi sento una nullità di fronte a quei giganti. È il momento più bello della giornata».
Come sono i figli di Berlusconi?
«Piersilvio sa fare la tv popolare; e ha trasformato Rete4 da una rete di soap-opera a un canale all news. Marina ha il senso dell’editoria e pure della politica».
Sarà lei l’erede?
«Non le consiglio di fare politica, per gli stessi motivi per cui sconsigliavo suo padre».
E gli altri figli?
«Tutti bravissimi. Luigi è un esperto di finanza. Barbara ed Eleonora tengono alta la curva demografica».
Chi è stato il miglior sindaco di Milano?
«Albertini».
E la Moratti?
«Ottima. Ma che gelida manina…».
Sala?
«Bravo. Ma il Comune non mette una lira nell’Opera del Duomo. Eppure prima del Covid avevamo quasi tre milioni di visitatori, e ora siamo tornati a 9 mila al giorno, per due terzi stranieri. Tutta gente che viene a Milano anche per il Duomo».
Lei ha passato la vita con la stessa donna, Annick. Quando l’ha incontrata?
«Avevo vent’anni, eravamo in vacanza in Grecia, nel golfo di Corinto. Non ci siamo più lasciati. Adesso si mollano al primo litigio… ma che fai, ti metti con una di trent’anni più giovane? Io non sono il tipo».
Berlusconi sì. Di anni in meno, Marta Fascina ne ha 54.
«Vuole una conferma che Silvio è un genio? Se lei e io avessimo fatto un quasi-matrimonio, ne avremmo ricavato una figura del cavolo. Lui è finito su giornali di tutto il mondo».
Sua moglie se n’è andata nel 2020.
«Per il Covid. Che ho portato a casa io. L’ho preso al San Raffaele, dove ero stato ricoverato in uno stanzone, per farmi mettere tre stent. Lei si è ammalata, fu ricoverata il primo novembre, il cinque ci ha lasciati. Ho ricordi confusi di quei giorni, come avvolti in una nebbia. Non ho potuto dirle addio, non sono potuto andare al funerale. Mi manca moltissimo».
Lei ha fede?
«Sì. Sono stato educato dai preti, e mi arrabbio quando vogliono farli passare tutti per pedofili: io ho conosciuto sacerdoti meravigliosi, uomini come don Eugenio Bussa che aveva salvato i bambini ebrei dai nazisti, a rischio della sua stessa vita. Ho speranza, e anche qualche dubbio. Sono arrivato all’età in cui fai un bilancio della vita…».
Come immagina l’Aldilà?
«Shakespeare ammoniva che siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i nostri sogni. Intendeva dire che non siamo nulla. Però sarebbe bellissimo ritrovare le persone care. Lo spero tanto».
Qual è il suo?
«Contano i dieci comandamenti. Su alcuni son debole. Il sesto, il nono… Il quinto invece è facile: non uccidere. Ho sempre detestato la violenza, per me è contro natura».
ALDO CAZZULLO
Il corriere della sera