Recensione di Gabriele Missaglia
Esiste uno scrittore emergente? O uno scrittore è semplicemente uno scrittore, e qualsiasi attributo è un surplus che non definisce in alcun modo la scrittura che produce? Bene questa è la domanda che mi è balenata in testa leggendo Vansky.
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Il nostro autore col suo primo romanzo crea una struttura composita, la cui sostanza si dipana in diversi strati che poco a poco sfilano sotto gli occhi del lettore come una magia degna di un prestigiatore.
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Perché sì, sarà pure il primo romanzo, sarà un esordio ma è sicuramente un libro che ti cattura nel modo in cui i personaggi si svelano dapprima con l’eleganza di una carezza e poi con la forza di uno schiaffo, nel modo in cui vengono descritti i luoghi che se non ci siete andati potete anche non farlo talmente grande è il trasporto e nel mondo strabiliante con cui finisce.
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A mio parere, però, il vero punto di forza rimane l’impianto dei personaggi. Sono veri, umani, percorrono per diritto e per rovescio tutto lo spettro delle emozioni, dei difetti e dei pregi, ricordando che tutti a nostro modo siamo un prodotto di comportamenti innati e di reazioni che si avviluppano nel tempo alla maniera delle eliche del dna; e che comunque non bisogna mai smettere di evolvere e di cambiare per stare al passo della vita.
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Insomma sono sette diverse pieghe attraverso le quali può mostrarsi il volto meduseo della vita, sette pieghe nelle quali possiamo riconoscerci perché è solo per il frutto di qualche strana variabile che siamo finiti in una versione e non in un’altra.
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Perché sì, l’altro grande portato di questo libro è il finale che rimescola le carte in tavola manco l’esistenza impersonasse il più pazzo dei croupier. Davvero incredibile come siano le più insignificanti parabole a segnare maggiormente la nostra vita, se siamo in grado di cogliere il cambiamento cui ci invitano. E che una piega può mutare con la stessa veemenza di una farfalla che sboccia da un infimo bozzolo.
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Per me è stata una lettura a dir poco sconvolgente. Sconvolgerà anche voi.