Di Marcello Veneziani

Il 22 aprile di trecento anni fa nasceva a Königsberg, dove poi sarebbe morto in tarda età, Il Filosofo Moderno per eccellenza e per antonomasia, Immanuel Kant. Se dovessi figurarlo sulla scena del pensiero mondiale, lo vedrei esattamente come lo vidi a scuola, anzi ancor prima, nella biblioteca paterna, dove Kant era di casa. Lo vedrei al crocevia del pensiero moderno, nel luogo esatto in cui confluiscono due strade che provengono dall’empirismo inglese e dal razionalismo francese e ne partono altre due, l’idealismo tedesco e il vitalismo tragico di Schopenhauer e poi di Nietzsche. 

Kant è l’inevitabile snodo del pensiero moderno. 

Anche il suo pensiero è un quadrivio tra quattro linee principali: la ragion pura e la ragion pratica, la critica del giudizio estetico e la filosofia dei diritti. 

Kant è al centro di quel crocevia, sovrastante e sorvegliante,  come un semaforo preciso, che segna rigorosamente il rosso e il verde, e solo nell’intermezzo arancione lascia margini agli ideali regolativi, ai postulati morali, ai gusti soggettivi. Kant fu la rappresentazione più alta della Legge, della Regola, della Norma, a cui si attenne in teoria e anche nella vita: di lui è proverbiale la metodica puntualità e la seriale ripetizione delle sue abitudini.

Una volta sola, si dice, superò i confini della sua passeggiata, con cui la gente regolava gli orologi: quando andò incontro al postale che recava notizie della Rivoluzione francese.

E’ un’immagine un po’ scolastica, ne convengo, ma alla fine se vuoi riassumere in un’icona un pensiero così grande e così grandiosamente articolato, devi ricorrere a un’immagine riassuntiva che ne dia il senso complessivo. E’ temerario nell’arco di un breve ritratto ripercorrere il suo pensiero e le sue opere, sarebbe ridicolo e risulterebbe offensivo anche per chi ha studiato la sua opera. Però due o tre cose di larga portata e d’importanza universale vanno dette intorno all’uomo e all’opera. 

La prima, elementare filosofia che mi insegnò mio padre quando ero bambino fu in una sera d’estate, passeggiando in campagna, citando una celebre frase di Kant dalla ragion pratica: “Due cose riempiono l’anima di ammirazione e di venerazione, il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.

Senza capirla ne colsi con mente puerile la speciale bellezza: sentivo riassunto in una frase, che era poi l’epigrafe sulla tomba di Kant, il mio essere al mondo, la meraviglia delle stelle e lo stupore che suscitavano in me, l’ammirata venerazione che si deve al cielo e il suo riflesso interiore nella coscienza. Fu la prima percezione dell’armonia, della simmetria tra microcosmo e macrocosmo, della connessione tra la mia anima e l’universo. Quella citazione mi spinse ad amare quella cosa strana che insegnava mio padre, e che era al tempo stesso la sua gioia e il suo lavoro, la sua missione e la sua professione: la filosofia. 

Poi da ragazzo quella citazione decadde al rango di didascalia dell’ovvio, retorica, un po’ manierista, banalmente liceale. 

Da adulto, notai che quella citazione, pur nella sua bellezza e grandezza, rivelava il punto debole del pensiero kantiano. Perché Kant lasciava un vuoto, un abisso, fra il cielo stellato e l’anima, cioè fra la trascendenza e l’interiorità, non scorgeva nel mezzo il mondo, la storia, la terra, il mare, la campagna, i legami comunitari, la famiglia, le eredità, la vita: la sua era la fondazione metafisica, cosmica e morale dell’individuo solitario, nella sua nordica, glaciale e siderale solitudine. Mi parve più vero, più vivo, più umano e più naturale il pensiero mediterraneo di Giambattista Vico che invece indagò tra il cielo e l’animo umano, tra la provvidenza e la coscienza, su tutto quel che stava di mezzo: la storia, i popoli, i legami comunitari, il comune sentire, la natura, i miti, la religione, la famiglia, le nazioni. Non pensò che per tutto questo dovesse bastare la Legge, il contratto sociale, le norme da osservare, come invece pensava Kant. Entrambi pensarono alla storia universale, ma Vico la pensò attraverso i popoli, le nazioni, le civiltà, le religioni e le tradizioni; mentre Kant da illuminista pensò a regole universali e perpetue, come la pace, cosmopolitiche e astratte, valide per tutti. Vico pensava alla realtà e all’essere, Kant alla norma e al dover essere. L’imperativo categorico kantiano, sintesi di rigorismo prussiano, fondava una morale assoluta, a volte con esiti disumani. Come quando, in una famosa risposta a Benjamin Constant, Sopra un preteso diritto di mentire per amore dell’umanità, Kant arrivò a sostenere che se un nostro amico inseguito da un assassino si rifugiasse in casa nostra noi non potremmo negare all’assassino di dire la verità, cioè che è rifugiato da noi. Perché la verità è un valore assoluto, anche rispetto alla vita. I cristiani invece ammettevano la pia fraus, ossia la menzogna a fin di bene, e Platone il socratico riconosceva “le salutari menzogne”; Kant no, il suo formalismo giuridico si faceva irrealismo intransigente e la verità era pura, separata dall’essere, dall’umanità e dalla vita. 

Kant era alto un metro e mezzo, sua madre lo chiamava l’ometto; era bruttino, mingherino, con una spalle asimmetrica e forse una testa più grande del suo corpo, cagionevole, celibe impenitente (“Se dovessi prender moglie ne sceglierei una che non abbia molto ingegno, ma che sappia apprezzarlo”). Misogino, riteneva che le donne servissero solo al mantenimento della specie e che dovessero dipendere interamente dall’uomo. Poco socievole, aveva però spesso ospiti a casa; a tavola aveva stabilito che non dovessero essere mai meno delle Grazie né più delle Muse, ovvero in un numero compreso fra tre e nove commensali. Era rigoroso e all’apparenza tetro ma il suo allievo Herder lo trovava perfino gioioso, giocoso e gioviale. Come Vico, anche Kant detestava la satira (“non rende mai migliori”, “lo spirito arguto rientra tra le cose superflue”). Citando Platone, Kant riteneva che “quando siamo svegli abbiamo un mondo comune, quando sogniamo ciascuno ha il proprio”: a me sembra di vivere in un mondo al contrario, in cui da svegli ciascuno ha il suo mondo a sé, incomunicante, e solo nei sogni, nella fiction, nelle fabbriche dell’immaginario collettivo, ritrova un mondo comune. Diffidava della filosofia al potere ma anche della promessa pubblica di felicità: il suo illuminismo era severo, individualistico, fondato sulla correlazione assoluta tra diritti e doveri, tra libertà e obblighi e sulla considerazione dell’uomo come fine, mai come mezzo. Era rigoroso, assoluto, intransigente; eppure nel suo austero palazzo della ragione lasciò un posto al sentimento del bello e del sublime, agli ideali regolativi e ai postulati religiosi e morali, allo spirito romantico e confessò di commuoversi per il cielo stellato. 

La Verità – 19 aprile 2024

Di the milaner

foglio informativo indipendente del giornale

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