Oggi abbiamo come ospite Gianfranco Gandini, celebre scrittore milanese, che ci racconta una storia tratta dal suo libro “Noi Martinitt” edizione Meravigli. I Martinitt sono un Istituto storico, molto amato dai milanesi e legato alla storia della nostra città (come Le Stelline e il Pio Albergo Trivulzio) .Gianfranco è stato orgogliosamente un Martinitt.
Leggendo il racconto “Un colpo di troppo” ho ricordato la scuola di una volta, la scuola che dopo le elementari prevedeva le medie, l’avviamento commerciale e quello industriale. Da quel triennio uscivano ragazzi formati per il lavoro e con una buona base culturale. Ora non si può proprio dire che sia così. Forse il passato non è tutto da buttare….
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Martinitt Scuola e Lavoro: Un colpo di troppo
di Gianfranco Gandini
La peculiarità della scuola in istituto, terminati i cinque anni delle elementari, era quella di preparare i ragazzi al mondo del lavoro.
Nello specifico, l’avviamento industriale prevedeva materie quali la tecnologia, nella quale i ragazzi studiavano, per esempio, gli altoforni, e l’esercitazione pratica, che consisteva nell’apprendere lavori di officina, tirando di lima e, più di rado, operando su macchine utensili come il trapano a colonna, il tornio e la fresatrice, ma anche utilizzando una piccola fucina per riscaldare pezzi di metallo.
C’era inoltre il disegno tecnico, con lo studio della proiezione ortogonale, spesso di pezzi di motore che bisognava disegnare in sezione.
L’avviamento industriale durava tre anni ed erano previste solo due sezioni, la A e la B, in ragione del numero dei ragazzi.
Renato si riteneva fortunato per il fatto di essere nella A, perché con alcuni professori, quelli non comuni alle due sezioni, si trovava particolar- mente bene e, infatti, riusciva più che discretamente nelle loro materie. Al contrario, sin dal primo anno, tecnologia, esercitazione pratica e disegno gli erano risultate alquanto ostiche. In particolare, la materia che meno gli andava a genio era proprio la tecnologia, anche perché il pro- fessore non faceva altro che fumare, durante le lezioni, e dettare appunti su appunti, quando non distribuiva punizioni, sotto forma di “penso”. Quel castigo consisteva nel dover trascrivere per una serie di volte decise dallo stesso professore una frase o, addirittura, un capitolo del libro di testo, con annesse eventuali illustrazioni.
Al contrario, le sue materie preferite erano geometria, chimica, fisica e lingua straniera, che allora era francese. Non poche erano state le soddisfazioni che gli avevano regalato, non senza impegno e sforzo, natural- mente. Come quando la professoressa di chimica aveva spiegato il processo dell’elettrolisi e lui era stato l’unico della classe ad averlo capito al volo, tanto che era stato chiamato alla lavagna per spiegarlo “con parole sue”, per cercare di renderlo comprensibile anche a tutti gli altri: «Provaci tu, Renato…» gli aveva detto la prof. Che emozione! Che orgoglio!
O come quando, dopo il compito in classe di francese, alla lavagna veniva chiamato l’allievo che aveva ottenuto il voto migliore per fare la correzione della traduzione, e anche in questo caso la metà delle volte toccava proprio a Renato.
E così, tra alti e bassi, erano trascorsi i primi due anni e ora, con i com- pagni, aveva iniziato la terza, la classe più temuta, ma anche quella più agognata. Il terzo anno spaventava per via degli esami conclusivi, quelli di licenza, con il loro inevitabile carico di ambasce, ma era anche quello che tutti aspettavano perché segnava il termine del ciclo di studi in isti- tuto, dopo il quale, per chi non decideva di frequentare le scuole serali, c’era l’inserimento nel mondo del lavoro, il mondo dei grandi.
Dopo non poche tribolazioni, Renato era riuscito a riconciliarsi almeno un po’ con l’esercitazione pratica. C’erano volute una notevole forza di volontà e molta determinazione, ma alla fine i primi buoni voti erano ar- rivati e, a conti fatti, si era reso conto che quella materia gli piaceva.
Aveva lavorato al tornio; in coppia con un suo compagno, era risultato primo nel calcolo della quaterna, che serviva anche per determinare l’in- tervallo nel lavoro della fresatrice per la costruzione di ruote dentate. E poi c’era stato anche l’episodio della troupe cinematografica che era an- data in istituto per girare un documentario sui Martinitt e proprio lui era stato scelto per una sequenza che lo vedeva al lavoro sul trapano a colonna. In realtà, era stata una bella faticaccia, per via di tutti quei ri- flettori puntati durante le lunghe riprese, e l’emozione per il fatto di essere “attore”, seppur per pochi momenti, gli aveva fatto perdere la con- centrazione, al punto di non riuscire a vedere bene la posizione del pezzo di metallo da trapanare… Ma anni dopo, in un cinema, prima dell’inizio del film, avevano proiettato proprio quel documentario e, per caso, si era rivisto, col cuore in gola.
Con il tempo, Renato aveva anche affinato la sua abilità nel lavoro con la lima, tanto da finire, con pochi altri, in un gruppo selezionato per mettere in piano una piastrina a forma di parallelepipedo, con la tolleranza di 2 centesimi di millimetro.
Per eseguire quel lavoro di grande precisione, gli allievi avevano a disposizione tre tipi di lima: quella da mazzo, la lima bastarda e quella dolce, che dovevano essere utilizzate in sequenza, dapprima per sgrossare, poi per iniziare a mettere in piano, quindi per dare il tocco finale al fine di ottenere una superficie che fosse perfettamente liscia e che rientrasse nella tolleranza richiesta. La tolleranza, fra l’altro, non prevedeva solo i 2 centesimi di millimetro per ogni faccia della piastrina, ma anche il rispetto delle misure di ogni lato, fissate dal professore, che non dovevano eccedere né mancare per più di 2 centesimi di millimetro.
Per poter, man mano, verificare la perfezione del lavoro, i ragazzi avevano a disposizione il piano di riscontro, sul quale si distribuiva il blu di Prussia, facendogli poi scivolare sopra il pezzo in lavorazione, di modo da evidenziare le parti in rilievo, che non si coloravano, e il comparatore, la cui punta, fatta scorrere sul pezzo, indicava attraverso una lancetta i centesimi di millimetro più alti o più bassi sulla superficie.
Ciascun allievo lavorava su un pezzo di ferro che veniva dalla fucina e che, quindi, era inizialmente da ripulire e sgrossare. Si erano messi tutti di buzzo buono, desiderosi di non sfigurare, anche perché il professore aveva comunicato loro che, alla fine, il voto sarebbe stato dato dal Preside. Sarebbe stata una di quelle occasioni per distinguersi, una di quelle imprese da poter raccontare e di cui vantarsi con gli amici e coi parenti, in caso ci si fosse aggiudicati il voto più alto.
Dopo i primi giorni, Renato era particolarmente soddisfatto: vedeva infatti il suo pezzo di ferro diventare sempre più “perfetto”, entro i limiti di tolleranza. La prova del piano di riscontro era stata superata e ora utilizzava solo il comparatore, per misurare di continuo le sei facce del parallelepipedo in lavorazione. A un certo punto, stabilì che aveva terminato e ripose il suo pezzo nella cassetta degli attrezzi, avvolgendolo in uno straccio un po’ unto, per evitarne l’ossidazione, in attesa del controllo conclusivo e del voto del Preside. Certo, c’era quell’angolino che era proprio al limite
dei centesimi di millimetro di tolleranza, ma non era sua intenzione di lavorarci ancora e, dunque, passò a un altro dei lavori assegnati.
Ma qualche giorno prima del termine fissato, Renato ci ripensò: «Se devo essere giudicato dal Preside – disse al suo compagno Luciano – non voglio fare una cosa che sia solo buona: deve essere perfetta!» e tirò nuovamente fuori la piastrina, sotto lo sguardo non poco stupito dell’amico. «Io, se fossi al tuo posto – gli suggerì Luciano, senza troppi giri di parole – lo lascerei com’è: sei già al limite minimo della misura, non puoi abbassare ulteriormente…».
Ma Renato non gli diede retta. Fece un ultimo controllo con il comparatore e poi strinse saldamente il pezzo di ferro fra le ganasce della morsa, avendo ben memorizzato il punto esatto in cui dare quell’ultimo colpo di lima per raggiungere la perfezione. Prese la lima dolce, la pulì con cura e l’avvicinò alla piastrina, ma… zac…, proprio nell’istante in cui la lima sfiorò il metallo, inavvertitamente, Luigi, un altro compagno, gli urtò il braccio, che impresse un colpo decisamente troppo forte sul pezzo. Un disastro! Un vistoso segno rigava la piastrina e anche senza l’ausilio del comparatore era chiaro che, oltre a non essere più in piano, il pezzo, in quel punto, era al di sotto della misura minima dettata dal professore.
C’era una sola cosa da fare: riprendere quel lato, per rimetterlo nuovamente in piano, con la massima attenzione possibile.
Nonostante lo sconforto, la tenacia di Renato lo premiò: con qualche colpo di lima ben dato, il lato tornò perfettamente in piano, ma la misura generale, seppur di poco, era ormai diventata inferiore a quella richiesta.
Il giorno della votazione, Renato si guadagnò comunque una bella soddisfazione. Il Preside riconobbe davanti a tutti il lavoro ben fatto, ma non poté fare a meno di chiedergli per quale motivo, vista tanta precisione, non avesse rispettato le misure stabilite.
«Signor Preside – rispose Renato, dando prova di grande correttezza e maturità – io avevo terminato il lavoro, ma non mi pareva perfetto e non ero del tutto soddisfatto. Quindi, ho voluto riprenderlo, ma inavvertitamente mi è scappata la lima e ho dato un colpo troppo forte, provocando un piccolo solco, che ho dovuto eliminare, sacrificando la misura…».
«Il lavoro è ben fatto – ribadì il Preside – e meriti comunque un 9, bravo! Ma, in futuro, cerca di stare più attento».
La gioia di Renato fu grandissima: quell’ottimo voto valeva ancora di più per il fatto di essere stato dato dal Preside e poi, aveva avuto modo di dimostrarsi un amico davvero leale, semmai ce ne fosse stato bisogno, dal momento che non aveva voluto coinvolgere Luigi in quel suo piccolo, grande dramma.
Racconto Tratto dal libro: “Noi Martinitt storie e racconti tra due secoli” – Edizioni Meravigli – di Cristina Cenedella e Gianfranco Gandini