Nel mese di dicembre 1992 al ritorno dal Senegal passammo alcune settimane nella casa che avevamo acquistato in Umbria mentre eravamo in Libia. In quel periodo in Italia era in atto la “caccia alle streghe” altrimenti detta “ tangentopoli”, e il quartetto di magistrati di Milano scatenati con a capo Antonio Di Pietro, stava facendo tabula rasa dei contratti che le imprese italiane avevano in essere con il DIPCO ovvero il Dipartimento per la Cooperazione del Ministero degli Esteri. Tale operazione, che poteva anche avere un nobile intento, era destinata ad avere un esito pari a 0 come fu possibile constatare negli anni a seguire.
L’unico obiettivo che centrò fu quello di bloccare cantieri ed appalti e lasciare gli operai, i tecnici e i quadri delle imprese coinvolte, senza lavoro, senza produrre alcun risultato salvo aver messo in galera un capro espiatorio, l’ing. Cusani, l’unico a pagare per aver seguito una prassi consolidata da decenni. Ebbene il sottoscritto fece parte della pletora di sfigati che rimasero senza lavoro. Mi diedi da fare moltissimo ma con scarsi risultati perché il mercato delle commesse era irrimediabilmente fermo. Grazie ad una vecchia conoscenza dei tempi del Gabon, fui messo in contatto con una sezione della Cooperazione allo Sviluppo dove cercavano qualcuno che conoscesse il Mozambico per ricoprire il ruolo di responsabile infrastrutture nell’Unità Tecnica dell’Ambasciata Italiana di Maputo. Il ruolo mi calzava a pennello e per la prima volta mi sarei trovato nelle vesti del controllore che faceva le pulci alle imprese, le stesse con le quali avevo lavorato in Mozambico 10 anni prima! Partii con un contratto breve che avrebbe dovuto essere rinnovato sul posto direttamente dall’Ambasciata.
Nel corso dei 10 anni, la guerra aveva lasciato profonde tracce nel tessuto sociale mozambicano. Fazioni diverse, odio etnico, massacri gratuiti, povertà estrema. Negli ultimi due anni la Cooperazione Italiana aveva portato avanti sottobanco trattative con le due fazioni belligeranti per trovare un punto di incontro e finalmente sembrava che si stesse realizzando il sogno della pace. L’economia già distrutta dal governo marxista di Samora Machel, era andata definitivamente in pezzi con tutti gli anni passati in guerra, con migliaia di morti, di mutilati e di orfani: i media occidentali che raramente si interessano di quanto accade in Africa avevano comunque parlato dei”meninos de rua” gruppi di bambini spesso privi di un braccio o di una gamba che si organizzavano in bande per sopravvivere ai margini delle città. Ne avevo sentito parlare ma questa volta ebbi l’occasione di vedere con i miei occhi l’orrore di quella realtà. Migliaia di mine antiuomo negli anni, erano state disseminate in tutto il territorio dalle due fazioni ed era estremamente pericoloso avventurarsi al di fuori delle piste conosciute . Gruppi di soldati del contingente internazionale guidato dagli artificieri spesso indiani Sikh, stavano sminando le principali arterie di comunicazione, e non era consigliabile muoversi liberamente fuori città.
Vivevamo in un compound costruito non distante dalla zona delle ambasciate, circondato da un alto muro coperto con cocci di bottiglia e filo spinato. Casette unifamiliari prefabbricate contornate da giardini ben curati. All’ingresso una sbarra con i guardiani filtrava chiunque cercasse di entrare. Dentro, una calma surreale, il ronzio dell’aria condizionata, magari le grida dei bambini di qualcuno che si era fatto raggiungere dalla famiglia che giocavano sull’erba, fuori il nulla, auto che sfrecciavano a tutto gas, donne con mocciosi al petto che transitavano nelle vicinanze alla ricerca magari di un impiego nel compound della cuccagna come donne delle pulizie, per portare a casa non uno stipendio che comunque non sarebbe servito a comprare nulla ma i resti del cibo che gli stranieri avrebbero loro concesso. Il mio ufficio era situato in una stradina dietro l’Ambasciata a pochi minuti da casa. I miei colleghi erano degli esperti del Ministero degli Esteri che avevano ottenuto il posto per appartenenza politica o perché avevano qualche parente intrallazzato con il Dipartimento. La loro preparazione era infima e le loro capacità professionali lasciavano molto a desiderare. Però erano dei maestri nel fare riunioni e redigere verbali. La cooperazione italiana in Mozambico è sempre stata gestita dalla sinistra e così era facile incontrare a Maputo degli ex Pci nella migliore delle ipotesi, se non dei fuoriusciti dai gruppi parlamentari dell’estrema sinistra anche legati alle Br, che avevano dovuto lasciare l’Italia ed avevano trovato in Mozambico un paese dove vivere , guadagnare dei bei soldi e continuare la loro attività politica. Tutti i miei “colleghi” venivano da quell’area e quindi mi trovai rapidamente ai ferri corti con molti di loro. La prima cosa che feci arrivando a Maputo fu quindi di recarmi subito nella sede della CMC dove con mia grande sorpresa e piacere incontrai come responsabile della società un mio ex collega del 1984 che aveva fatto carriera. Claudio C. in realtà l’avevo conosciuto molti anni prima nel 1978 in Algeria quando faceva il contabile per una delle Coop che lavoravano alla costruzione delle fognature e della rete idrica di Algeri. Ci eravamo quindi incontrati nuovamente nel 1984 a Maputo quando io lavoravo alla costruzione della diga del Pequenos Libombos e lui in filiale in città come responsabile amministrativo. Quando io avevo lasciato la società lui invece aveva fatto strada ed era diventato l’uomo di punta della CMC in Mozambico. Claudio fu molto contento di vedermi e di sapere che ero io il responsabile delle infrastrutture per conto del governo italiano, immaginava forse che sarei stato più propenso a capire le problematiche dell’impresa visto che la mia formazione era quella dell’impresario e non quella del controllore…questo era quello che sperava almeno! Comunque gli chiesi se mi poteva dare un auto visto che l’Ambasciata non era in grado di fornire vetture di servizio. In quattro e quattro otto mi ritrovai a disposizione un 4×4 pick-up Isuzu nuovo di zecca.
I miei compiti prevedevano il controllo delle opere infrastrutturali che erano state appaltate alle imprese italiane, ma non solo. Dovevo occuparmi anche dei contratti in essere con le ONG che erano molto diffuse su tutto il territorio e che spesso lavoravano in zone difficili e pericolose. Cominciavo il giro dei vari cantieri al mattino molto presto anche perché erano dislocati su tutta l’area metropolitana di Maputo e dintorni. Uno dei contratti che erano in essere con una ONG di Bologna prevedeva il risanamento di un quartiere disagiato della città con la fornitura di una stazione di pompaggio per l’estrazione dell’acqua da un pozzo oltre la posa delle tubazioni e dei rubinetti per portare l’acqua all’esterno di vari gruppi di abitazioni. Il quartiere era nella zona ovest di Maputo sopra delle colline disseminate di baracche. Lungo la strada erano evidenti i segni lasciati dall’ultimo nubrifagio di poche ore prima. La terra rossa trasportata dalla furia delle acque aveva riempito le scoline laterali già ingombre di rifiuti. Ruscelli di acqua malsana traversavano la strada che saliva ripida verso la sommità della collina. Bambini nudi si bagnavano giocando in mezzo al fango mentre cani scheletrici si contendevano qualcosa trovata in mezzo all’acqua. Quando giunsi in cima, la distruzione mi apparve in tutta la sua dimensione. Da una piccola altura a circa 200 mt di distanza, dove doveva trovarsi il pozzo con le pompe, veniva giù un fiume d’acqua marrone che trascinava con se tronchi, pietre, piante sradicate. Tutto finiva in una voragine che si era aperta ai piedi della collina diverse decine di metri più in basso e sospese come fili di una ragnatela ,le tubazioni che erano state appena montate, disegnavano un macabro riferimento del lavoro inutile che era stato fattoe distrutto nel giro di poche ore di pioggia. Questo fu un esempio di come venivano malamente utilizzati i fondi della cooperazione: progetti fatti senza studi di fattibilità e controlli previ per vedere sul terreno il lavoro che si andava a finanziare. Era il gioco perverso delle ONG che sulla base di richieste fatte dai Ministeri locali, presentavano al DIPCO degli stracci di progetti con delle richieste economiche che molto superficialmente venivano approvati e attribuiti per l’esecuzione a persone spesso senza esperienza ma nella migliore delle ipotesi armate solo della volontà di aiutare il prossimo. Con la mentalità e l’esperienza che avevo accumulato in tutti i miei anni di attività nelle imprese mal digerivo questa faciloneria e menefreghismo nell’utilizzo di fondi che…tutto sommato facevano parte di soldi tirati fuori dalle tasche dei contribuenti italiani . Mi sfogai con il geometra della ONG che mi stava accompagnando cercando di fargli capire che non era quello il modo di aiutare i mozambicani, ammesso che fosse veramente quello l’intento suo e della no-profit (per modo di dire) cui apparteneva. Sulla strada del ritorno meditavo sulla relazione che avrei dovuto scrivere sull’accaduto agli uffici competenti della Farnesina e mi domandavo se il mio approccio rigoroso pragmatico e tutto sommato patriottico, avrebbe trovato terreno fertile oppure si sarebbe rivolto contro di me.