di Cesare Sacchetti
L’ultima indiscrezione sulla Meloni e le sue intenzioni alle prossime europee giunge dagli ambienti vicini a palazzo Chigi dove in queste ultime settimane si sta parlando dei futuri assetti che riguardano le elezioni europee.
L’atmosfera che si respira vicino ai luoghi della politica a Roma è una di sconforto ma soprattutto di smarrimento.
Sono in molti ad essere consapevoli che l’attuale legislatura non avrà degli orizzonti molto ampi, ma al contrario alquanto limitati perché l’attuale inquilino di palazzo Chigi, Giorgia Meloni, sembra essere la prima ad non essere interessata a gettare le premesse per farla durare.
Sin dai primi istanti, lady Aspen, così chiamata per la sua appartenenza all’istituto Aspen della famiglia Rockefeller, uno dei passaggi necessari per varcare le soglie della presidenza del Consiglio, ha mostrato molta riluttanza a rivestire il ruolo che suo malgrado le era stato assegnato.
A luglio del 2022 quando Mario Draghi, l’uomo del Britannia, staccava la spina del suo governo in quella che era una sorta di abdicazione a reggere sulle proprie fragili spalle i fragili equilibri dello stato profondo italiano, Giorgia Meloni era una delle prime che non voleva la fine di quell’esecutivo.
E non era certo l’unica. Ai partiti italiani ormai in fase di decomposizione strutturale e di prosciugamento del consenso popolare andava piuttosto bene che ci fosse un tecnocrate a fare in qualche modo da parafulmine alla politica.
La tecnocrazia è stata una sorta di paravento dietro il quale sistematicamente la seconda Repubblica nata su impulso e volontà degli ambienti dello stato profondo di Washington si è nascosta per non prendersi le responsabilità delle decisioni più impopolari.
La stagione nata dal 1992 in poi è stata senza dubbio la stagione dei tecnocrati in quanto questi su mandato delle varie organizzazioni internazionali quali UE, FMI e banca mondiale venivano letteralmente imposti dall’alto per eseguire l’agenda della globalizzazione e della spoliazione economica di una nazione.
L’Italia è stata letteralmente saccheggiata delle sue risorse da quelli che qualcuno ha definito efficacemente come i sicari dell’economia e la politica si è ritrovata a vestire il ruolo di comprimaria.
Il passaggio da Prima a Seconda Repubblica si può riassumere come quello di un passaggio di consegne dalle mani dei partiti a quelli dei tecnocrati ma ciò è stato possibile soltanto perché la Costituzione stessa del 1948 è nata sotto l’egida di una potenza occupante, gli Stati Uniti, e tale circostanza da sola sarebbe più che sufficiente per definire nulla da un punto di vista giuridico la carta come disse Giulio Andreotti.
Il valzer dei tecnocrati però era possibile sino a quando l’ordine transnazionale che li inviava era saldo e stabile come un tempo, e come avveniva, ad esempio, ai tempi di Mario Monti in un contesto geopolitico del tutto mutato rispetto agli ultimi tempi.
Negli ultimi anni si è di fronte ad uno scenario completamente cambiato e il primo ad intuirlo fu proprio uno di questi emissari, Mario Draghi, che lavorò alla sua fuga da palazzo Chigi già dal gennaio del 2022 dopo che sfumò il Quirinale, come correttamente anticipato da noi e come ricordiamo per i lettori che si sono imbattuti in noi soltanto negli ultimi tempi.
Giorgia Meloni a luglio del 2022 sapeva che sarebbe toccato a lei in quanto ormai era lei ad essere la “leader” del partito di maggioranza nel centrodestra e ormai il perno di tale coalizione, se così si può definire viste le sue continue risse al pari del centrosinistra, si era tutto spostato su di lei dopo che la Lega “sovranista” aveva gettato la maschera durante la farsa pandemica e aveva così mandato in fumo tutto il consenso degli anni passati.
Giorgia Meloni non voleva però bere l’amaro calice e sin dal primo istante ha mostrato una riluttanza a cercare accordi e compromessi con i suoi “alleati” che invece sono stati costantemente umiliati come accaduto a Berlusconi, ridotto ad elemosinare qualche dicastero qua e là e trattato come una vecchia palla al piede dal presidente del Consiglio.
Nei mesi successivi è iniziato poi un vero e proprio pellegrinaggio della Meloni in ogni angolo del globo che i suoi improbabili consiglieri della comunicazione, probabilmente mutuati da qualche televendita di materassi, sono stati in grado di trasformare in un fantomatico “piano Mattei” arrivando persino a rubare il nome del compianto presidente dell’ENI che fu eliminato dagli ambienti angloamericani per la sua opposizione al cartello petrolifero delle famigerate sette petrolifere.
Quello della Meloni è stato un interminabile tour che l’ha vista collezionare il record di viaggirispetto ad ogni altro suo predecessore in quello che è sempre stato chiaramente un tentativo di non assumersi alcuna responsabilità politica.
Soltanto un esempio tra i molti. Quando venne presa la decisione di abolire il reddito di cittadinanza, la Meloni non era nemmeno in Italia ma lasciava la patata bollente di questa decisione nelle mani dei suoi ministri che a loro volta sembrano assenti dalla scena, e compaiono, di quando in quando, soltanto per tagliare qualche nastro o scattare qualche fotografia come fa spesso il ministro della Cultura, Sangiuliano, mentre gli altri si distinguono per essere invisibili e impalpabili, come nel caso del ministro dell’Economia, Giorgetti.
La Meloni non ha mai avuto particolare voglia di assolvere a questo ruolo perché sapeva benissimo il momento storico nel quale si trovava e si trova l’Italia.
Il piano di fuga dei politici italiani a Bruxelles
Lei, come gli altri peones del Parlamento italiano, sanno che il sistema di potere internazionale, l’anglosfera e l’impero americano, che assicurava la loro rendita di posizione è in via di dismissione e che occorre lavorare ad un piano di fuga.
Lo stanno facendo in molti. Tutti sembrano puntare a Bruxelles e alle elezioni europee. Renzi, l’uomo che doveva ritirarsi dalla politica nel 2016 dopo aver perduto il suo referendum e coinvolto nel caso Spygate, ha già iniziato a far mettere la sua faccia sulle fiancate degli autobuspreparando in largo anticipo la campagna per il Parlamento europeo.
Zingaretti, eletto soltanto nel 2022 al Parlamento europeo, e coinvolto in un enorme scandalo per il caso sulle mascherine, certificato persino dalla Corte dei Conti, prepara a sua volta la campagna elettorale europea nonostante soltanto l’anno scorso fingesse disinteresse per la corsa a Bruxelles.
La Meloni non pare essere da meno e sta giocando un gioco a carte ancora più coperte di quello dei suoi colleghi in Parlamento.
Lady Aspen non solo non sta sciogliendo la riserva sulla sua canditura alle elezioni europee probabilmente per sfuggire a qualche fuoco di fila interno o esterno al suo partito ma starebbe in segreto coltivando l’ambizione di provare a candidarsi ad una delle poltrone più prestigiose dell’apparato dell’eurocrazia, quella di presidente della Commissione europea.
Attualmente, com’è noto, il presidente della Commissione europea in carica, Ursula Von der Leyen, ha già annunciato di voler correre per un nuovo mandato come presidente a ha già ottenuto l’appoggio formale del suo partito, il partito popolare europeo.
Ciò però non dà alcuna sicurezza alla Von der Leyen che sta cercando a tutti i costi un modo di rimanere a Bruxelles, pena l’essere chiamata probabilmente a rispondere dell’enorme scandalo, oscurato dalla cappa mediatica, sul contratto dei vaccini Pfizer, che l’avrebbe vista aver ricevuto indirettamente tramite il suo consorte, Heiko, una cifra pari a più di 700 milioni di dollari.
Senza lo scudo della immunità europea, difficilmente la Von der Leyen potrebbe sopravvivere alle conseguenze di questo enorme conflitto di interessi che l’ha anche vista cancellare le tracce delle comunicazioni telefoniche con la Pfizer, in quello che appare essere un vecchio vizio della politica tedesca che quando era ministro della Difesa in Germania era nell’occhio del ciclone per gli stessi scandali e le stesse vecchie “abitudini.”
Il fatto che il PPE abbia rinnovato la sua fiducia alla Von der Leyen non dà a quest’ultima alcune certezze per due ragioni principalmente.
La prima è che nella storia delle elezioni dei presidenti della Commissione europea sono soltanto due quelli che sono riusciti a conquistare più di un mandato, e questi sono il socialista francese Delors, considerato uno degli euristi più potenti della storia dell’UE seguito da Josè Barroso, altro personaggio che godeva della protezione di importantissimi circoli mondialisti quali il Bilderberg e la Chatham House, senza dimenticare il fatto che dopo la fine del suo secondo mandato, nel 2014, Barroso fu accolto tra le braccia di Goldman Sachs, a conferma delle potenti entrature di cui godeva.
Ursula Von der Leyen appare diversi gradini sotto a questi personaggi e inoltre si presenta il secondo problema.
L’aver ricevuto l’investitura del PPE non dà all’attuale presidente alcuna garanzia se si ignora nuovamente il sistema dello spitzenkandidat.
Questa parola che sembra ricordare qualche piatto tipico della cucina tedesca sta in realtà a individuare quel sistema di elezione basato su quel principio che darebbe al partito europeo che conquista più seggi la prerogativa di imporre poi il proprio candidato per la presidenza della Commissione UE al Parlamento europeo che dovrà poi esprimersi su tale candidatura.
Questo sistema però non ha una validità giuridica, è più che altro una consuetudine, e il Consiglio europeo, l’organismo composto da capi di governo e capi di Stato, ha facoltà, secondo i trattati, di ignorare questa procedura e di imporre al Parlamento europeo il proprio candidato.
La stessa Von der Leyen non è stata eletta in virtù del principio dello spitzenkandidat, ma perché imposta dal Consiglio nel 2019che poi ha avuto non poche difficoltà a far eleggere la propria candidata che ha rischiato di saltare in più di un’occasione.
La partita è aperta e la Meloni potrebbe provare a giocarsela magari sfruttando sia i suoi appoggi con alcuni Paesi dell’Europa Orientale, Ungheria e Polonia in particolare, sia quelli degli ambienti dell’anglosfera, su tutti il Times di Londra, che l’ha definita la “leader più popolare d’Europa” anche se ovviamente di popolarità la Meloni ne ha ben poca, soprattutto in Italia.
Il presidente del Consiglio non è l’unico che avrebbe messo nel mirino la poltrona di presidente della Commissione europea per provare a mettersi al riparo dalla tempesta in arrivo sulla politica italiana.
Non è un segreto che Draghi abbia la stessa ambizione, così come non è un segreto che l’uomo del Britannia da ormai quasi due anni stia bussando alle porte di varie istituzioni politiche e finanziarie internazionali per continuare a trovarle costantemente chiuse.
Draghi è ormai decaduto e il vecchio sistema dell’anglosfera che lo aveva posto a palazzo Chigi non ha più molto da offrirgli poiché esso stesso è in decomposizione.
Sono in molti , come si vede, a voler lasciare l’Italia, e se la Meloni scoprirà le carte soltanto all’ultimo momento e proverà a dirigersi a Bruxelles, si aprirerebbe un enorme buco a palazzo Chigi il cui riempimento appare un vero e proprio rebus.
Non c’è infatti la fila per prendere il suo posto e l’ultimo garante del fragile sistema politico italiano, Mattarella, non avrebbe alcun sostituto pronto per proseguire la legislatura.
I tecnici si sono fatti da parte da tempo e alternative praticabili nel Parlamento non ce ne sono, tantomeno a sinistra dove la Schlein fa fatica a tenere persino insieme il suo stesso partito che attraversa una scissione strisciante e quotidiana con diversi membri del PD che continuano a lasciare.
Appare esserci il grande vuoto dopo la fine di questo esecutivo. Appare esserci il capolinea del sistema della Seconda Repubblica che non sembra più in grado di sopravvivere senza l’ombrello dell’anglosfera.
L’ultima fragile foglia di fico è l’attuale governo Meloni che già è un esecutivo virtuale per la sua assenza costante e per la sua incapacità di gestire la situazione di crisi economica permanente che vive il Paese per la soffocante austerità imposta dall’euro.
Adesso resta da capire quant’aspettativa di vita ha questo governo ma il problema per l’establishment è che la stessa premier sembra essere la prima disinteressata a tenere in vita l’esecutivo.
La Meloni, come gli altri, già guarderebbe all’estero per provare a mettersi in salvo.
Dopo il 9 giugno, la crisi del fragile sistema politico italiano diventerà ancora più acuta e intensa.
Fonte:La cruna dell’ago