di Cesare Sacchetti
Il mondo si è ritrovato sconvolto ancora una volta dalla notizia degli attacchi di Hamas verso Israele.
Le immagini che in queste ore stanno invadendo gli schermi di tutto il mainstream mediatico internazionale sono quelle di una pioggia di razzi che è piombata dalle postazioni del gruppo islamista verso lo stato ebraico.
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha prontamente rilasciato un messaggio alla nazione affermando perentoriamente che il Paese è appena “entrato in guerra”.
Fin qui, nulla di sostanzialmente nuovo. Se ci volessimo limitare ad una lettura superficiale e ordinaria dei fatti, ne dovremmo dedurre che quello che sta accadendo in Israele non è altro che l’ennesimo capitolo del doloroso e sanguinario conflitto israelo-palestinese.
Secondo tale lettura ciò che accade in queste ore è il risultato dell’inevitabile contrapposizione che esiste tra due parti, l’islamismo radicale di Hamas da un lato, e Israele, dall’altro, che rifiutano di riconoscere l’uno l’esistenza dell’altro e che sono votati alla distruzione reciproca.
La storia di Hamas non nasce però in qualche oscura grotta della Palestina con fondi di quei Paesi da sempre più vicini al terrorismo islamico, quali in particolare l’Arabia Saudita, regno sin dalla sua nascita del terrorismo wahabita, e che solamente negli ultimi anni sta conoscendo una fase di apparente secolarizzazione con il dominio del suo controverso erede al trono, Mohammed bin Salman.
La storia di Hamas nasce per volontà dello stesso Stato di Israele. Negli anni 70, quando in Palestina la principale opposizione alla causa del sionismo era rappresentata dal movimento per la liberazione della Palestina, il celebre OLP, guidato da Yasser Arafat, a Tel Aviv si resero conto che questa opposizione era per loro un grave problem
politica di impronta chiaramente nasseriana ed era pienamente parte della famiglia dei movimenti del socialismo nazionale arabo.
Si tratta di una dottrina politica alquanto lontana dalle istanze degli islamisti radicali che invece hanno sempre sostenuto la necessità di creare uno Stato fondato sui precetti dell’Islam, interpretato spesso però nella sua versione più estrema e violenta, quale quello che per molti decenni si è visto proprio in Arabia Saudita, dove l’oppressione per i non islamici, soprattutto per i cristiani, è piuttosto radicata.
Israele voleva creare un movimento islamista radicale per indebolire l’OLP e togliere così dalla scena politica l’odiato Arafat.
Iniziarono di conseguenza ad arrivare fondi ai militanti islamici da parte di Israele. Gli stessi vertici militari dello stato ebraico hanno confermato pubblicamente che fu il governo israeliano ad autorizzare lo stanziamento dei fondi a quello che negli anni 70 e 80 era uno sparuto gruppo di pochi estremisti.
In quegli anni il governatore della striscia di Gaza era il generale israeliano Yitzhak Segev, e fu proprio lui a rivelare che il governo israeliano gli mise a disposizione un budget che poi veniva elargito alle moschee.
Mentre sulla scena pubblica mondiale Israele si scontrava con Arafat al tempo stesso però era all’opera per dare soldi ad altri palestinesi che nella loro ottica avrebbero aiutato una volta per tutte a demolire la leadership dello stesso Arafat.
Questo rapporto di Israele con le frange più violente del terrorismo islamico è un fenomeno che proseguirà nel corso degli anni e si è visto in particolar modo soprattutto gli anni passati quando Tel Aviv ha costruito una partnership strettissima con Riyad culminata con la visita senza precedenti di un erede al trono saudita, bin Salman, in Israele.
Ciò nasceva dal’esigenza comune di entrambi i Paesi di indebolire il grande avversario, o meglio incubo, di Israele, cioè l’Iran dell’ayatollah Khomeini fondato su una forma molto meno estrema di islam, quella sciita, e che sin dalla sua nascita nel 1979 rappresenta un fiero e tenace avversario della lobby sionista.
Lo si vedrà anche quando negli anni 2010, altri terroristi islamici, quelli dell’ISIS, lautamente finanziati ancora una volta da Arabia Saudita e Qatarseminarono un’ondata di violenza e morte senza precedenti nel Medio Oriente, ma non sfiorarono mai casualmente lo Stato di Israele.
Gli avversari dell’ISIS erano solamente quegli Stati arabi che si ispirano ai valori del socialismo arabo o a maggioranza sciita, quali la Siria di Assad e l’Iraq, che potevano costituire un fronte di opposizione al progetto di espansione territoriale della Grande Israele fortemente voluto dalla destra del partito Likud israeliano.
Il Likud ha una visione di Israele più “spirituale” che politica in quanto nell’ottica di questo partito un giorno lo stato di Israele dovrà tornare ai suoi originari confini biblici, quelli che vanno dal Nilo all’Eufrate, per poi accogliere il messia profetizzato dall’ebraismo.
Questa ambizione della parte più messianica del sionismo è persino stata raffigurata in una moneta da 10 agora, la valuta israeliana, coniata dalla banca centrale israeliana.
A sostenere che il vero piano di Israele non era altri che quello di raggiungere i suoi originari confini di un tempo fu proprio Arafat che mostrò la moneta in questione ad una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 1990.
Il messia, o moshiach, citato poco fa e riveste un ruolo chiave in questa “visione” imperialista è molto di più di una figura politica. E’ una figura spirituale della quale ci parla più in dettaglio uno dei movimenti più influenti del sionismo a livello mondiale, ovvero la potente setta dei Chabad Lubavitch, che abbiamo visto spesso ospitata alla Casa Bianca e alla quale anche la politica italiana rende i suoi omaggi soprattutto dal 1992 in poi.
Chabad afferma che alla comparsa del messia “tutte le nazioni si tutte le nazioni si sforzeranno per creare unnuovo ordine mondiale, nel quale non esisteranno più guerre e conflitti.”
La presentazione della visione sionista messianica sul sito di Chabad
La visione ultima dunque di questa setta non appare affatto differente da quella delle massonerie che utilizzano la stessa espressione per descrivere la futura nascita di un governo universale nel quale Israele guidata dal moshiach assume un ruolo di leadership assoluta.
Il primo ministro israeliano, Netanyahu, abbraccia pienamente tale visione messianica e sogna un’espansione dello stato ebraico fino ad un completo annichilimento del popolo palestinese.
Ora questa così radicale differenza di vedute, il sionismo messianico, da un lato, e l’islamismo radicale di Hamas, dall’altro, potrebbe indurre diversi osservatori a pensare che il disegno israeliano di creare una opposizione alternativa a quella di Hamas sia sfuggito di mano a Tel Aviv.
È di questo avviso, ad esempio,l’analista americano di origini ebraiche Alon Ben-Meir che appartiene invece ad un’altra anima del mondo ebraico, quella sionista progressista di natura secolare.
Ben-Meir afferma che ormai Hamas si sarebbe tramutata in un “feroce nemico” di Israele e che oggi lo stesso governo israeliano rimpiangerebbe la sua scellerata decisione di aiutare i militanti islamisti.
Questo però, a nostro avviso, vorrebbe dire limitarsi a fare proprio quella visione superficiale e ordinaria che abbiamo detto di voler evitare all’inizio della nostra analisi.
Innanzitutto appare avventato pensare che gli israeliani non sapevano cosa stessero facendo già negli anni 80.
Quando Tel Aviv decise lo stanziamento dei fondi ai militanti di Hamas lo fece certamente per indebolire Arafat, ma al tempo stesso lo fece anche nell’ottica di fabbricare una opposizione violenta che avrebbe alienato le simpatie del mondo alla causa palestinese e che avrebbe rinchiuso per sempre la Palestina in una spirale di violenza senza fine.
40 anni dopo la creazione di Hamas, vediamo che è esattamente questo l’esito al quale Hamas ha condotto la Palestina e vediamo, al tempo stesso, che Israele ha la perfetta opposizione radicale di cui ha bisogno sia per lanciare le sue periodiche sortite contro Gaza sia per allontanare la pressione dal governo israeliano.
Questo infernale meccanismo è ancora una volta in corso proprio in queste ore. Non appena c’è stato l’attacco di Hamas, Israele, le cui difese aeree hanno subito efficientemente ripreso a funzionare, ha subito ripreso a bombardare Gaza.
Hamas è semplicemente perfetta in questo senso per consentire allo stato ebraico di attuare la sua strategia di annichilimento della Palestina e del suo popolo.
A confermare che i militanti islamisti ricevono ancora oggi finanziamenti per volere di Tel Aviv è stato proprio lo stesso premier israeliano, Netanyahu, quando affermò che i fondi del Qatar ad Hamas erano parte della strategia del divide et impera applicata contro il popolo palestinese.
Al tempo stesso, il gruppo di militanti islamisti si rileva come uno strumento estremamente utile per distogliere l’attenzione dai problemi nei quali si trova periodicamente il governo.
Prima di questa crisi, Netanyahu si trovava proprio nel mezzo di una vera e propria tempesta politica.
Le piazze erano invase da mesi da manifestanti della sinistra israeliana ritenuta molto più vicina a George Soros, americano di origini ebraiche, che non ha una grande passione per lo stato di Israele in quanto la sua è una visione più internazionalista e globalista e che non riconosce nessun particolare primato tra le nazioni allo stato ebraico.
Le piazze erano in rivolta contro il governo per il progetto di riforma della giustizia del governo che assegnerebbe molti più poteri di controllo all’esecutivo verso la magistratura.
La riforma, se approvata, consentirebbe a Netanyahu di controllare completamente i giudici più vicini oggi al mondo della sinistra israeliana.
Quando abbiamo assistito alle immagini degli scontri per le strade di Israele abbiamo assistito a quello che appare ormai essere un insanabile conflitto tra le due anime dello stato ebraico, quella sionista messianica e quella sionista progressista, che si fondano su principi e visioni della politica del tutto inconciliabili.
Lo stesso presidente di Israele, Herzog, disse che il rischio di guerra civile nel Paese non è mai stato così alto come lo è ora.
L’attacco di Hamas giunge dunque come provvidenziale nell’ottica di Netanyahu. Il premier israeliano attraverso la logica del nemico esterno ha potuto allontanare da sé la pressione che lo vedeva nell’occhio del ciclone e ha spostato l’attenzione degli israeliani sulla minaccia di Hamas.
Le immagini che stiamo vedendo in queste ore sembrano rafforzare l’ipotesi di attacchi consentiti o quantomeno non affatto respinti dalle forze armate israeliane, e questo in uno degli Stati più militarizzati al mondo è certamente un elemento alquanto anomalo.
È quanto vediamo nelle città israeliane di Ashkelon e Sderot invase dai militanti di Hamas e lasciate senza difesa dall’esercito israeliano.
Israele è uno stato dove ogni centimetro è presidiato dalle forze armate e questo appare sicuramente come una circostanza che non ha spiegazioni a meno che non si prenda in considerazione l’ipotesi di un’improvvisa e completa inettitudine dell’agguerrito esercito israeliano.
Ancora più anomalo il fatto che Hamas riesca a prelevare dalla sua residenza privata senza difficoltà alcuna un uomo come il generale Nimrod Aloni.
generale Nimrod Aloni preso dai militanti di Hamas
Le abitazioni private degli uomini più in alto delle forze armate israeliane dovrebbero essere costantemente sorvegliate e protette e il servizio segreto del Paese, il Mossad, dovrebbe essere il primo a sapere di incombenti minacce nei confronti di uomini con ruoli così delicati per la sicurezza nazionale.
A meno che anche in questo caso non si propenda per una improvvisa e inaspettata comparsa di una incompetenza mai vista prima da parte dell’intelligence israeliana.
Stesse perplessità sussistono per i razzi che stanno piovendo indisturbati sugli obiettivi di Hamas. Israele ha sviluppato un sistema di difesa aereo chiamato “Cupola di Ferro” che è in grado di intercettare generalmente dal 70% al 90% dei razzi che vengono sparati dai militanti islamisti palestinesi.
Non è stato così in questa occasione.
E’ come se per una giornata intera tutto il cuore della difesa israeliana e tutta la sua centrale di intelligence si fossero improvvisamente spenti lasciando così ad Hamas campo libero nel portare avanti la sua offensiva.
Una dinamica che ricorda molto da vicino quanto accadde l’11 settembre del 2001 negli Stati Uniti quando l’intero sistema di difesa aereo americano smise inspiegabilmente di funzionare e quando furono violati i più elementari protocolli di sicurezza dei cieli.
Quel giorno, a New York, qualcuno sembrava comunque sapere cosa stava per accadere ed erano certamente gli ormai cinque famigerati agenti del Mossad che danzavano felici dinanzi al drammatico spettacolo del crollo delle Torri Gemelle.
Alla luce di tutto questo è quantomai forte la sensazione che quanto stia accadendo non sia altro che parte della logica di quella strategia del conflitto controllato che ha consentito ai neocon sionisti di mettere in atto il colpo di Stato del 11 settembre e che consente a Netanyahu e alla destra del Likud di preservare le proprie posizioni di potere.
Se questa è la strategia dell’esecutivo, a Tel Aviv però probabilmente si illudono. L’escalation è destinata prima o poi a rientrare e la crisi, seppur artificiale, creata dall’attacco di Hamas non risolverà le insanabili contraddizioni dello stato di Israele.
Lo spauracchio della guerra civile non è stato scacciato definitamente. È stato soltanto spostato un po’ più avanti.
Lo stato ebraico attraversa un momento molto delicato della sua esistenza e si trova a dover fare i conti non solo con un isolamento internazionale ormai assoluto, vista la presa di distanza dell’Arabia Saudita, ormai membro dei BRICS, e la freddezza di Washington nei suoi riguardi.
Il nemico più pericoloso per Israele stavolta non è fuori. È dentro le sue viscere e non sarà certo Hamas a farlo sparire.
Da La cruna dell’ago.net
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