di Cesare Sacchetti
A bordo del panfilo della regina Elisabetta quella notte del 2 giugno del 1992 c’erano molti personaggi. C’era il giovane Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, che sarà poi il cerimoniere ufficiale, per così dire,del tradimento che venne messo in atto quella notte.
C’era Riccardo Gallo del glorioso Istituto per la Ricostruzione Industriale, c’era Giovanni Bazoli dell’Ambroveneto assieme ad un’altra pletora di dirigenti pubblici che quella notte non erano lì per tutelare la ricchezza del patrimonio industriale pubblico dell’Italia e degli italiani.
E non erano nemmeno lì per salvaguardare quel formidabile sistema bancario che aveva consentito all’Italia di avere un modello talmente virtuoso ed equilibrato tale da fargli guadagnare lo scettro del Paese con le banche più stabili del mondo assieme all’altra preziosa medaglia del Paese con il più alto tasso di risparmio privato sul pianeta assieme al Giappone.
Su quella nave c’era tutto il compianto modello dello Stato imprenditore che in una prolusione di qualche tempo fa Benito Livigni, ex collaboratore di Enrico Mattei, presidente dell’ENI, definiva alquanto efficacemente la “terza via”.
E l’Italia da Paese unico e straordinario qual è aveva trovato di fatti una sua via in economia che non era quello del capitalismo anglosassone protestante integrato di fatto con la finanza askenazita, né tantomeno l’altra falsa alternativa del collettivismo statale di natura comunista che aveva messo al bando la proprietà privata e instaurato non il dominio del proletariato come ipocritamente affermava Karl Marx, membro della massoneria, ma piuttosto quello di un’altra borghesia che non differiva per nulla da quella capitalista.
La storia dell’URSS è lì a ricordareche a prendere il potere non sono stati certo dei proletari russi emarginati sotto il regno dello zar Nicola poi trucidato dai bolscevichi, ma un manipolo di sovversivi in larghissima parte di origini ebraiche che avevano strettissimi rapporti con la finanza di New York, tanto che Trotskij è proprio nella capitale della speculazione internazionale che trovò rifugio, laddove era generosamente finanziato da personaggi quali Jacob Schiff e Max Warburg, circostanza nota a tutti i governi europei dell’epoca.
Non è certo un segreto poi che a consentire il ritorno di Lenin in Russia nell’infausto anno della rivoluzione d’ottobre non fu qualche operaio tedesco simpatizzante della causa bolscevica, ma Paul Warburg, fratello del citato Max, che nel suo ruolo di vicepresidente della Federal Reserve Bank americana si assicurò che Lenin ricevesse i fondi necessari per intraprendere la sua spedizione in Russia e rovesciare l’odiato zar Nicola.
Questi nomi saranno già famigliari a molti lettori. Sono coloro che soltanto 5 anni prima della rivoluzione bolscevica attraverso una controversa legge, la Federal Reserve Act, divennero i veri proprietari della banca centrale americana e dell’economia di una delle nazioni più forti del mondo.
Non deve sorprendere che ciclicamente la FED abbia infranto il suo “dogma” di consentire al mercato di autogovernarsi secondo il fantomatico principio del neoliberismo che vuole che i mercati funzionino perfettamente da soli, senza alcuna “ingerenza” da parte dello Stato.
Non deve sorprendere perché i signori della FED quali Morgan, Schiff, Rockefeller e Warburg hanno utilizzato la facoltà di creare moneta ex nihil non certo per garantire agli Stati Uniti crescita e sviluppo, o per salvare le imprese mandate al macero dalla finanza e dalla globalizzazione, ma esclusivamente per salvare le proprie banche da quelle crisi cicliche che il capitalismo speculativo senza alcuna regolamentazione comporta.
Il modello cattolico italiano: lo Stato imprenditore
Nulla di tutto questo era penetrato in Italia né durante il fascismo né dopo la seconda guerra mondiale.
Le sane radici cattoliche dell’Italia avevano consentito a questo Paese di percorrere la via già indicata da papa Leone XIII che nella sua enciclica Rerum Novarum condannava sia il modello capitalista sia quello comunista, in quanto entrambi non garantivano il benessere del popolo e finivano inevitabilmente per creare una contrapposizione in classi che poi, come si è visto nelle applicazioni pratiche del comunismo, finiscono inevitabilmente per avvantaggiare il dominio del capitale.
Quando ci fu la famigerata crisi del’29, il duce, che già aveva messo al bando uno dei circoli eletti del capitale, le massonerie, pensò di istituire un istituto industriale pubblico che rilevò le partecipazioni delle industrie e delle banche colpite dalla crisi per renderle aziende di Stato.
Soltanto pochi anni prima, attraverso la famosa legge bancaria del 1926, il governo di Benito Mussolini aveva stabilito un principio fondamentale per l’attuazione dell’economia mista.
La facoltà di stampare moneta, prima rimessa anche nelle mani di istituti bancari privati, si veda il famigerato scandalo giolittiano della banca romana al riguardo, era stata trasferita esclusivamente nelle mani della banca d’Italia, all’epoca controllata dallo Stato.
Se si pensa invece al percorso che abbiamo compiuto negli ultimi 35-40 anni, ci si accorgerà facilmente che siamo tornati in pratica alle stesse condizioni, se non peggio, nelle quali ci si trovava nello Stato liberale voluto fortemente dalla massoneria nel 1861, laddove era una ristretta élite di latifondisti e capitalisti ad avere il controllo della cosa pubblica.
Il fascismo mette fine al dominio del privato sul pubblico e ristabilisce la supremazia dello Stato sui processi economici che devono avere l’obiettivo di garantire la crescita di un Paese e non quella di un manipolo di spregiudicati finanzieri e capitalisti di ventura che attraverso il neoliberismo si sostituiscono in tutto e per tutto allo Stato.
Quando finisce la seconda guerra mondiale, il conto delle macerie è molto alto ma l’allora classe dirigente della repubblica dell’anglosfera non aveva una visione predatoria a differenza di quella sorta dopo l’infausta notte del Britannia e la rivoluzione colorata di Mani Pulite.
L’IRI diventa il perno della rinascita economica dell’Italia. Lo Stato imprenditore è ciò che garantisce all’Italia di avere una delle crescite economiche più alte del secondo dopoguerra.
Se si pensa a cosa c’era dentro l’IRI, si resta sbalorditi. C’era dentro l’Ansaldo, gli Aeroporti di Roma, le autostrade, l’Alfa Romeo, lo SME (Motta, Alemagna, Buitoni), la Telecom, il banco di Roma, la banca nazionale del Lavoro, l’Italsider, l’Italcantieri, la società degli Autogrill, e l’Alitalia.
C’era, in altre parole, tutta la spina dorsale economica ed industriale della nazione. C’era un modello economico che aveva garantito allo Stato di sfuggire alla morsa del capitale finanziario e degli oligarchi che da tempo volevano impossessarsi del tesoro dell’Italia e diventare loro i veri padroni di questa nazione.
Il saccheggio del Britannia
Quella famigerata notte ci riuscirono. Ci riuscirono perché stava avendo luogo uno dei golpe più infami della storia di questa nazione, inferiore soltanto forse a quello di Cassibile, quando il generale Castellano ha preso le chiavi della sovranità italiana e le ha consegnate all’anglosfera e ai suoi referenti finanziari.
A voler mettere le mani su quel tesoro erano gli esponenti di banche quali JP Morgan, Goldman Sachs, la Baring & Co., la S.G. Warburg, Merryll Lynch e Solomon Brothers.
Gli uomini più potenti della city di Londra e di Wall Street salgono su quel panfilo e riescono a comprare a prezzo di saldo il patrimonio industriale pubblico dell’Italia che verrà smantellato in nome del falso dogma neoliberale che il privato è più virtuoso del pubblico, quando l’unica “virtù” del privato, soprattutto quello finanziario, è semmai quella di arricchire sé stesso a discapito di una comunità intera.
Quel golpe è stato possibile perché la magistratura stava conducendo una operazione giudiziaria che si può definire scientifica attraverso la rimozione di quei partiti della vecchia classe dirigente della Prima Repubblica, su tutti il PSI e la DC, che venivano eliminati per lasciare posto al PDS.
I post-comunisti erano infatti stati già scelti come “vincitori” di questa falsa rivoluzione, come amava chiamarla Craxi, e che diedero poi negli anni successivi il colpo di grazia allo Stato imprenditore liquidando ciò che era rimasto dell’IRI negli anni 90 e facendo regalie di vario tipo a oligarchi quali i Benetton che si presero in concessione le autostrade con i risultati che tutti hanno potuto vedere attraverso un aumento dei pedaggi e un vertiginoso crollo della qualità del servizio, di cui il crollo del Ponte Morandi è soltanto l’esempio più manifesto.
Tale manovra eversiva non è mai stata studiata a fondo da un punto di vista anche giuridico, se si vuole.
Nessuno si pone mai il quesito di chi aveva autorizzato Draghi e gli altri a salire a bordo di quel panfilo, nave di una nazione straniera ricordiamolo, e mettere in atto una svendita che definire danno erariale sarebbe un eufemismo da parte nostra.
Il 2 giugno del 1992 l’Italia non aveva un governo pienamente in carica, in quanto il governo Andreotti poteva compiere solo il disbrigo degli affari correnti e non risulta che l’ex presidente del Consiglio abbia mai autorizzato nulla del genere.
L’anno dopo per lui fu approntata un’altra macchina del fango persino più infame di quella di Mani Pulite che prese le sembianze del processo per mafia del quale abbiamo parlato in un altro contributo.
Draghi, Bazoli e gli altri non sono mai stati messi sotto inchiesta poiché la magistratura, salvo rare eccezioni, è un corpo che serve a coprire le malefatte dello stato profondo e della massoneria, e non farle venire alla luce.
E il ’92 è la prova regina della funzione della magistratura nella tanto, non da noi, decantata democrazia liberale.
Soltanto alcuni magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino quell’anno stavano provando a seguire le tracce di una inchiesta, quella sui fondi neri del PCI, che se fosse andata in porto avrebbe spazzato via con ogni probabilità il PDS e i suoi dirigenti deputati a prendere il posto della classe dirigente della Prima Repubblica.
Non si può poi non notare una sequenza temporale altrettanto inquietante.
Quando Falcone salta in aria il 23 maggio a Capaci, il panfilo della Regina Elisabetta sbarca a Palermo e il 27 si reca sul luogo dell’attentato assieme al marito Filippo, noto membro della massoneria britannica.
Soltanto 5 giorni dopo la Regina metteva a disposizione il suo panfilo per mettere in atto un vero e proprio attacco alla sovranità economica del Paese.
La Gran Bretagna aveva tutto l’interesse che le banche e gli istituti finanziari anglosionisti rilevassero i gioielli dell’economia italiana in quanto l’Italia era un pericoloso concorrente industriale e, al tempo stesso, poiché la corona britannica è da tempo un garante degli interessi di questi poteri finanziari.
Nessuno, anche in questa occasione, pensò bene di diramare una nota formale di protesta contro Londra che di fatto era partecipe di un atto di aggressione nei confronti dell’Italia.
Né tantomeno lo fece il successore di Andreotti, Amato, che sarà colui che quando salirà al potere nel luglio di quell’anno darà il via libero definitivo al saccheggio nell’estate di quell’anno, non prima però di aver depredato nottetempo i conti correnti degli italiani, in nome della falsa emergenza dovuta alla partecipazione dello SME, che se fosse stato abbandonato a tempo debito avrebbe risparmiato all’Italia un salasso di 48 miliardi di dollari eseguito per gentile concessione di Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca governatore di Bankitalia, che pensò bene di fare le fortune del Quantum Fund di Soros in una scellerata e suicida difesa a oltranza del cambio fisso della lira con il marco.
Su quel panfilo poi c’erano anche personaggi del calibro di Beppe Grillo a detta di Emma Bonino che non è mai stata smentita dal comico genovese.
I signori dell’anglosfera volevano assicurarsi di preparare una opposizione di comodo già in quella lontana epoca poiché erano alquanto consapevoli che il neoliberismo, l’ingresso nell’UE e nell’euro avrebbero portato ad un depauperamento che difficilmente sarebbe stato digerito dalla popolazione e pertanto occorreva costruire un laboratorio del dissenso e darne la custodia al guitto di Genova che poi passerà il testimone alla Lega negli anni più recenti.
Questa è la storia di un golpe e dell’omicidio economico di un Paese che era stato voluto già decenni prima, quando nei primi anni 70, il club di Roma di influenza rockefelleriana decise che la nazione sede della cristianità mondiale andava portata al declino, pena l’impossibile avanzata del Nuovo Ordine Mondiale che è un sistema fondato sulla repressione della religione cristiana ma soprattutto cattolica, in particolar modo nella sua versione più autentica della Chiesa pre-conciliare e non quella liberale e secolare partorita dal nefasto Concilio Vaticano II.
Quanto accaduto all’Italia allora e negli anni precedenti deve essere una lezione per il futuro. Studiare la storia, quella vera e non quella raccontata dai vari propagandisti liberal-progressisti, serve a comprendere quale assalto ha ricevuto questa nazione e cosa la finanza askenazita ha portato via all’Italia.
E in questa fase storica laddove assistiamo al declino di quella falsa rivoluzione del 92 e dei suoi protagonisti è necessario pensare che occorre ripartire dalla vera identità dell’Italia per dare un futuro a questa nazione.
La vera identità dell’Italia non è quella di un sistema economico fondato sul neoliberalismo protestante ma sul cattolicesimo sociale e sulla rinascita dell’IRI.
L’IRI è stato il perno della rinascita passata, e non potrò necessariamente che essere il perno della rinascita futura.