Per la prima volta, il leader di un Paese europeo si è pubblicamente schierato contro l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti d’America. Si tratta del cancelliere tedesco Olaf Scholz, il quale, nella giornata di ieri, ha dichiarato che «sarebbe bene che i tribunali britannici gli garantissero la necessaria protezione, perché deve effettivamente aspettarsi persecuzioni negli Stati Uniti, in considerazione del fatto che ha tradito segreti di Stato americani». Fino a questo momento, a fronte di un partecipato attivismo da parte di numerosissime entità della sella società civile – e al netto di Papa Francesco, che la scorsa estate ha anche ricevuto in Vaticano Stella Morris, la moglie di Assange –, nessun Capo di Stato o di governo del continente europeo si era mai formalmente espresso in tal senso. Assange è in attesa che l’Alta Corte di Londra si pronunci in va definitiva in merito alla sua estradizione negli Stati Uniti, dove rischia fino a 175 anni di carcere.
Il cancelliere Scholz – socialdemocratico che guida un governo di centrosinistra con l’appoggio di Verdi e Liberali – ha pronunciato queste parole rispondendo a una serie di domande da parte degli studenti in occasione di un incontro all’interno di un centro formativo professionale a Sindelfingen, nel Land tedesco del Baden-Württemberg. Parlando del caso Assange, Scholz ha inoltre evidenziatoche «nell’ultimo dibattimento, i rappresentanti degli Stati Uniti non sono stati in grado di garantire ai giudici britannici che l’eventuale pena sarebbe stata entro limiti sostenibili dal punto di vista del Regno Unito». Esprimendosi sull’inedito episodio, Stella Assange ha commentato: «Tanto di cappello allo studente che ha chiesto al cancelliere tedesco Scholz quale fosse la sua opinione sul caso/estradizione statunitense contro Julian Assange». Fino ad ora, sul no all’estradizione del fondatore di WikiLeaks avevano preso ufficialmente posizione solo governi estranei allo stretto fronte Occidentale, tra cui diversi leader del Sudamerica, come il presidente brasiliano Lula e, negli ultimi giorni, il presidente messicano Obrador. A muoversi è stata anche l’Australia, patria di Assange, che lo ha fatto però con enorme ritardo. Solo nel dicembre 2022, quando Assange si trovava rinchiuso nella prigione di Belmarsh da ben tre anni e mezzo, il primo ministro australiano Anthony Albanese si è infatti pubblicamente schierato per la prima volta a favore dell’attivista, chiedendo agli USA di porre fine alle «azioni legali» a suo carico, dichiarando che «quando è troppo è troppo» e che «è giunta l’ora che questa questione giunga a una conclusione».
Lo scorso 20 e 21 febbraio, all’Alta Corte di Londra è andata in scena l’udienzaper stabilire se il fondatore di WikiLeaks – che rischia di finire la sua vita in carcere negli USA per aver pubblicato file riservati del governo statunitense che hanno svelato i crimini di guerraconsumati dagli USA in Iraq, Afghanistan, Cuba e Guantanamo -, potrà continuare a discutere il suo caso davanti ai tribunali inglesi o se, al contrario, egli abbia esaurito i ricorsi a sua disposizione, con conseguente estradizione a Washington. Nei pressi del tribunale, in contemporanea con l’udienza, i comitati e le associazioni che, in tutto il mondo, hanno attivamente supportato negli anni la causa di Assange, si sono riuniti per una grande manifestazione. In aula non ha però presenziato l’attivista australiano, assente per gravi problemi di salute. Nel corso del dibattimento, la parte statunitense ha sostenuto l’estradizione del giornalista affermando che, divulgando documenti coperti da segreto, il fondatore di WikiLeaks avrebbe messo a rischio vite innocenti. Secondo i legali di Assange, invece, le accuse a lui rivolte avrebbero una valenza puramente politica. La Corte, stando a quanto è trapelato nei giorni in cui è andata in scena l’udienza, si esprimerà definitivamente sul caso entro marzo.
Stefano Baudino
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