di Cesare Sacchetti
Nell’ultimo retroscena governativo del Corriere si respira un’aria da ultimi giorni di Pompei. È quell’aria che in realtà aleggia su tutta la politica italiana dal 2022 a questa parte e che sembra togliere il sonno a molti dei peones che abitano a Montecitorio e Palazzo Madama.
Stavolta Giorgia Meloni avrebbe confessato ai suoi consiglieri politici – che nel gergo della Seconda Repubblica americanizzata sarebbero i cosiddetti “spin doctor” – di temere quanto già accaduto ai tempi del governo Berlusconi.
È uno spauracchio che in realtà non ha nessuna seria possibilità di manifestarsi.
In quel frangente storico, Berlusconi, divenuto d’intralcio per il progresso dei piani della finanza internazionale e dell’eurocrazia, venne rovesciato con una manovra di palazzo eseguita attraverso la sponda decisiva del Quirinale occupato da Giorgio Napolitano, scomparso la scorsa settimana.
In questa fase invece se si guarda sopra palazzo Chigi non si vedono volteggiare gli avvoltoi della finanza anglosassone pronti a sostituire la Meloni con un altro dei loro emissari.
L’attuale contesto politico e geopolitico è del tutto mutato rispetto a quello del 2011. All’epoca, il potere dell’eurocrazia e soprattutto quello dell’Euro-Atlantismo non era affatto in discussione.
L’impero americano era ancora saldamente in piedi, e alla Casa Bianca non c’era un presidente degli Stati Uniti che aveva messo in discussione i capisaldi di quello che i media mainstream amano definire l’ordine liberale l’internazionale.
Questa espressione identifica quell’ordine che è uscito dal secondo dopoguerra e che ha consegnato agli Stati Uniti lo scettro di garante dell’anglosfera.
È l’assetto che ha stabilito a Bretton Woods nel 1944 che il dollaro sarebbe divenuto la moneta di riserva globale, e questo status quo è stato garantito in passato non solamente dalle sanzioni emesse da Washington contro gli Stati ribelli ma anche dalle bombe.
Coloro che in passato hanno osato sfidare tale ordine sono stati vittime di attentati e di invasioni militari che hanno portato poi alla loro successiva morte.
E’ quanto accaduto, ad esempio, a Saddam Hussein che nel 2000 aveva dichiarato pubblicamente la sua intenzione di abbandonare il dollaro come moneta per il pagamento del petrolio iracheno.
Tre anni dopo veniva invaso con il ridicolo pretesto che egli era un sodale di Osama bin Laden quando questi apparteneva ad un mondo, quello del terrorismo wahabita protetto dalla casa reale saudita, del tutto incompatibile con il terrorista saudita.
Saddam aveva una visione molto nasseriana della politica e si ispirava ai valori del socialismo nazionale arabo, nulla a che vedere con la corrente wahabita dell’islam che vorrebbe sterminare persino gli islamici sciiti, soprattutto quelli iraniani.
Se si cerca qualcuno che era davvero vicino a Osama bin Laden è proprio a Washington che bisogna guardare dal momento che l’estremista saudita fu finanziato negli anni 80 dalla Casa Bianca per guidare i mujahideen afghani contro l’Unione Sovietica.
La memoria però non è un esercizio troppo praticato dagli ambienti sionisti e neocon che hanno disseminato guerra e devastazione in ogni angolo del globo per molti e troppi decenni.
Stessa sorte toccò ad un altro leader arabo nasseriano quale Muammar Gheddafi che alla fine degli anni 2000 stava studiando un progetto per una valuta africana che avrebbe sostituito il dollaro nelle transazioni internazionali tra i Paesi africani e il resto del mondo.
Nel 2011 tutti ricordiamo il drammatico epilogo del bombardamento libico che portò all’uccisione del colonnello libico trasmessa in mondovisione con le scioccanti e drammatiche immagini del volto di Gheddafi insanguinato.
A Washington qualcuno rideva dell’omicidio efferato del colonnello e ciò non è affatto una iperbole. Hillary Clinton, uno dei membri più potenti del think tank che ha deciso sin dalla istituzione la politica estera americana, il Council on Foreign Relations, rideva sul serio quando in un’intervista le chiedevano di Gheddafi.
In una orrenda parafrasi del Veni, Vidi, Vici di Giulio Cesare pronunciato in terra di Gallia, la Clinton dichiarava che “siamo venuti, abbiamo visto ed è morto” e il riferimento al morto è al leader libico ucciso su ordine della NATO.
All’epoca il mondo che governava gli Stati Uniti e il suo impero era quello dello stato profondo e della sua fitta tela composta da circoli privati militari e finanziari.
Il governo tecnico oggi è irripetibile
A distanza di 12 anni, quel mondo e i suoi equilibri non esistono praticamente più. L’impero americano marcia verso il suo inarrestabile declino e da quando si è insediato Donald Trump che ha rotto il continuum democratico-repubblicano la tendenza non si è affatto arrestata nonostante alla Casa Bianca ci sia il democratico Joe Biden.
Anche i quotidiani del mainstream mediatico internazionale hanno dovuto prendere atto, loro malgrado, che Joe Biden non ha mantenuto le aspettative.
Oltre alla interminabile serie di imbarazzanti gaffe e di evidenti problemi psico-fisici che mettono in grave imbarazzo lo stato profondo americano, l’amministrazione Biden, come afferma lo stesso Financial Times, non ha cambiato le linee guida di politica estera di Trump come invece avrebbe dovuto sulla carta fare.
Quel sistema di potere che ha organizzato la frode elettorale nel 2020, la più grossa della storia, non è riuscita a riportare gli Stati Uniti sul binario desiderato.
Dunque bisogna registrare l’assenza del garante che ha consentito quella interminabile sequela di governi tecnici e politici decisi dal governo segreto che aveva in mano le redini a Washington.
La dimostrazione pratica che la stagione dei governi tecnici è volta alla fine ci viene da quanto accaduto con Mario Draghi.
Mario Draghi era stato scelto già nel 2020 da potenti ambienti massonici, come dichiarato dagli stessi esponenti della massoneria, per sostituire Conte e spostare l’asse della politica italiana pendente in quel frangente troppo verso la Cina verso la Francia di Emmanuel Macron.
L’uomo del Britannia doveva assolvere ad una “missione” che era la stessa iniziata nel 1992. Doveva completare la dismissione dell’Italia attraverso il cappio del PNRR, che è un acronimo sotto il quale si nasconde un’altra forma della Troika.
L’ufficio della propaganda eurocratica aveva compreso che per mascherare le sue intenzioni alla opinione pubblica italiana occorreva seppellirle bene sotto le parole preferite degli eurocrati quali “resilienza” che se pronunciata nei corridoi della Commissione europea provoca irrefrenabili spasmi euforici.
Draghi era venuto per fare il lavoro che sa fare meglio. Quello del commissario liquidatore che doveva legare l’Italia al vincolo dei prestiti europei. Prestiti europei che per aggiungere ancora maggiore danno alla beffa non sono altro che i soldi che l’Italia versa ogni anno a Bruxelles e sui quali Roma avrebbe dovuto persino pagare gli interessi. La missione di Draghi non era altro quindi che quella di rendere l’Italia un’Albania europea, dove i clan del narcotraffico assieme alle élite locali dominano completamente il Paese.
Se tale passaggio si fosse compiuto il dominio degli oligarchi stranieri sarebbe stato totale e definitivo e le prospettive di tornare ad avere un domani la sovranità nazionale perduta sarebbero state praticamente nulle.
C’è stato però un elemento che ha fatto saltare i piani dei nemici dell’Italia. La fine della farsa pandemica ha tolto quella condizione di emergenza artificiale indispensabile allo stato profondo italiano per attuare il suo piano di liquidazione nazionale.
Solamente lo stato di crisi permanente consentiva quell’accentramento autoritario senza precedenti di poteri che si è visto nel 2020-2022, e tale crisi non è un qualcosa che la politica italiana può ricreare da sola.
Ci sono dei tentativi scomposti di qualche singolo personaggio politico, vedasi Gualtieri “positivo” al “Covid”, oppure di qualche associazione scolastica per spingere e tornare ai tempi del 2020 ma tutti ovviamente ed inevitabilmente finiscono con un buco nell’acqua.
Quando Davos e gli altri circoli globalisti si sono trovati di fronte un blocco geopolitico composto dalla Russia, dalla Cina, separata ormai dalla finanza anglosassone, e dall’America di Trump che si è opposta al disegno del Grande Reset, si è spenta qualsiasi possibilità di proseguire con emergenze artificiali.
A Washington poi oggi c’è il vuoto politico già menzionato in precedenza, e questo ha consegnato l’UE, e inevitabilmente l’Italia, in uno stato di isolamento internazionale.
Il globalismo non ha pezzi da poter muovere sulla scacchiera e non può cambiare gli esiti della partita.
Quando Draghi vide nel gennaio del 2022 che non si consumava la ricompensa promessagli da massoneria e finanza di spostarlo da palazzo Chigi al Quirinale e quando vide che la congiuntura internazionale era ostile al raggiungimento del piano, iniziò a fare quello che ci capitò di osservare proprio in quel mese.
Iniziò a lavorare per la fuga dal suo governo. Il PNRR era stato in realtà già rinchiuso nei cassetti sotto la sua presidenza perché Draghi ormai non aveva più interesse ad attuarlo per le ragioni già citate sopra.
Giorgia Meloni entra in scena solamente dopo la caduta di Draghi come ultimissima spiaggia di un sistema che non aveva e non ha più soluzioni disponibili da quando è uscito di scena l’uomo del Britannia.
E la leader di FDI già lo scorso anno era alquanto restia ad assolvere al ruolo di agnellino sacrificale che viene scelta come disperata misura per trovare qualcuno disponibile a sedersi sulla poltrona di palazzo Chigi.
Anche questo è un altro elemento che dimostra come l’attuale congiuntura sia del tutto diversa da quella del 2011.
Negli anni passati c’era la fila per poter fare il premier ed eseguire gli ordini dei potentati stranieri. Oggi c’è la fila invece a tenersi il più distanti possibile da quella che un tempo era la poltrona più agognata nella politica italiana.
Ciò si spiega con il nuovo scenario che si è creato negli ultimi anni.
La Meloni pronta a staccare la spina al suo governo?
La fase attuale è una di definitiva disgregazione di vecchi equilibri che è impossibile ricomporre. Quando la Meloni dunque ventila immaginari governi tecnici lo fa più che altro per preparare il terreno alla sua uscita di scena e addossare la colpa a qualche demiurgo che oggi in realtà non c’è più come prima, e se ancora parzialmente è presente non ha nessuna intenzione di spostare la Meloni perché dopo non c’è più nulla.
C’è semplicemente il vuoto perché i partiti ormai non possono e, a questo punto, nemmeno vogliono provare a salvaguardare equilibri che ormai sono venuti meno.
L’uscita di scena di questo governo ci sarà quindi non per fattori esterni ma interni. La verità scappa di bocca anche alla stessa presidente quando afferma queste parole.
“Sicuramente non cadrò per un complotto. Non succederà a me quello che è successo ad altri prima di me. Se andrà male sarà per colpa nostra, per qualcosa di concreto.”
In privato dunque la Meloni smentisce le immaginarie paure di governi tecnici manifestate in pubblico. Il presidente del Consiglio sa bene che il governo non durerà non per inesistenti pressioni esterne ma per fattori interni provocati da palazzo Chigi stesso.
E il fatto che parli della caduta del governo come un qualcosa di inevitabile fa pensare che il premier sia già al lavoro non per ostacolare questo scenario, ma piuttosto per favorirlo.
Per dirla in termini ancora più espliciti, Giorgia Meloni non ha mai voluto assolvere al ruolo che dei poteri in crisi le avevano assegnato e sta già lavorando ad una sorta di exit strategy esattamente come prima di lei aveva fatto Mario Draghi.
Occorre lasciare il governo prima che la situazione socio-economica si aggravi di più e la bomba sociale diventi poi impossibile da gestire.
Le strategie fatte di demenziali campagne di marketing mutuate dalla pubblicità commerciale assieme a interminabili visite all’estero non possono essere portate avanti a lungo.
Non si può pensare di irretire gli italiani con delle passerelle quando Lampedusa è ricolma di immigrati clandestini.
Nè tantomeno si può pensare di far fronte alla crisi economica permanente non assumendosi nessuna responsabilità o peggio attraverso qualche video promozionale confezionato dai soliti pifferai della comunicazione che circondano la Meloni.
La pazienza degli italiani è giunta al limite e il malcontento generale è come un vulcano pronto ad eruttare con tutta la sua forza esplosiva in qualsiasi momento.
La Meloni si trova nel più classico dei cul de sac. Da un lato, i vecchi poteri in declino che le chiedono di restare su una nave che affonda. Dall’altro, un popolo che non tollera più il peso dell’austerità neoliberale imposto dall’euro e che vuole prepotentemente il ritorno di un vero Stato che protegga i cittadini e non il mondo delle banche e della finanza.
La Meloni si toglierà probabilmente d’impaccio per lasciare una scomodissima posizione. Adesso resta da capire quale sarà il casus belli al quale il premier lavorerà per far cadere il suo governo.
Il MES sembra il candidato ideale. Ciò però non toglie un fatto. Lo status quo dello stato profondo italiano era già venuto meno con l’addio di Draghi. Quello che vediamo ora è soltanto accanimento terapeutico.
Una volta che il governo cadrà la crisi della classe politica italiana entrerà nella sua fase terminale. L’Italia sta per entrare in acque inesplorate con il venir meno di tutti i vecchi attori.
Considerato quello che c’era nelle acque navigate in passato, questa prospettiva appare sicuramente più rassicurante di quella di restare nella fetida e malsana palude della corrotta democrazia liberale.
È iniziato quello che potrebbe essere l’ultimo autunno della Seconda Repubblica.