Manifesto del 28 settembre 1941 in tre lingue (russo, ucraino e tedesco) con cui si ordina a tutti gli ebrei di Kiev di radunarsi alle ore 8 del 29 settembre 1941 nel luogo designato nella città di Kiev.
I tedeschi raggiunsero Kiev il 19 settembre 1941. I partigiani e i servizi sovietici dell’NKVDavevano minato una serie di edifici nel centro della città, che fecero esplodere il 24 settembre, provocando centinaia di vittime fra le truppe tedesche e lasciando oltre 50 000 civili senza tetto.
A quel tempo, nella città risiedevano circa 60 000 ebrei; circa 100 000 erano fuggiti quando, a giugno dello stesso anno, i tedeschi avevano invaso l’Unione Sovietica.[9][10] Il 28 settembre vennero affissi per la città manifesti recanti la dicitura seguente:
«Tutti gli ebrei che vivono a Kiev e nei dintorni sono convocati alle ore 8 di lunedì 29 settembre 1941, all’angolo fra le vie Melnikovskij e Dochturov (vicino al cimitero). Dovranno portare i propri documenti, danaro, valori, vestiti pesanti, biancheria ecc. Tutti gli ebrei non ottemperanti a queste istruzioni e quelli trovati altrove saranno fucilati. Qualsiasi civile che entri negli appartamenti sgomberati per rubare sarà fucilato.»
Molti, inclusi i 60 000 ebrei della comunità ebraica di Kiev consistente in anziani, malati, bambini e donne, ovvero tutti coloro che non erano riusciti a fuggire prima dell’arrivo dei nazisti[11], pensarono che sarebbero stati deportati. Già il 26 settembre, invece, in una riunione fra il comandante militare di Kiev, Generalmajor Eberhardt, l’ufficiale comandante l’Einsatzgruppe C[12], SS-Brigadeführer Otto Rasch, e l’ufficiale comandante il Sonderkommando 4a, SS-StandartenführerPaul Blobel, si era deciso di ucciderli come rappresaglia agli attentati del 24 settembre, ai quali gli ebrei erano peraltro estranei.
Il massacroModifica
Le modalità di esecuzione del massacro di Babij Jar sono simili a quelle messe in atto in quegli anni dai reparti speciali nazisti (Einsatzgruppen) e collaborazionisti locali anche in altre località dell’est europeo, come Ponary in Lituania, Liepāja e Rumbula in Lettonia, Bronna Góra in Bielorussia e Gurka Połonka in Ucraina.
Gli ebrei di Kiev si radunarono presso il cimitero, aspettando di essere caricati sui treni. La folla era tale che molti degli uomini, donne e bambini non capivano cosa stesse accadendo e, quando udirono il rumore delle mitragliatrici, era ormai troppo tardi per fuggire. Vennero condotti in gruppi di dieci attraverso un corridoio di soldati, come descritto da Anatolij Kuznecov:
“Non c’era modo di schivare o sfuggire ai colpi brutali e cruenti che cadevano sulle loro teste, schiene e spalle da destra e sinistra. I soldati continuavano a gridare: “Schnell, schnell!” (In fretta! in fretta!) ridendo allegramente, come se stessero guardando un numero da circo; trovavano anche modi di colpire ancora più forte nei punti più vulnerabili: le costole, lo stomaco e l’inguine.»
Gli ebrei furono obbligati a spogliarsi, picchiati se resistevano, infine uccisi con armi da fuoco sull’orlo del fossato. Secondo l’Einsatzbefehl der Einsatzgruppe Nr. 101, almeno 33 771 ebrei da Kiev e dintorni vennero trucidati a Babij Jar fra il 29 e il 30 settembre 1941: abbattuti sistematicamente con pistole mitragliatrici e le mitragliatrici Schwarzlose.
Esecutore del massacro fu l’Einsatzgruppe C, supportato da membri del battaglione Waffen-SS e da unità della polizia ausiliaria ucraina. La partecipazione di collaborazionisti a questi eventi, oggi documentata e provata, è tema di un pubblico e doloroso dibattito in Ucraina.
All’avvicinarsi dell’Armata Rossa, nell’agosto del 1943 i nazisti cercarono di occultare le prove del massacro. I reparti della Sonderaktion 1005 al comando di Paul Blobelimpiegarono 327 prigionieri per esumare e bruciare i corpi. I prigionieri portarono a termine il compito in sei settimane.
Quelli troppo malati o troppo lenti furono fucilati sul posto. Un militare della Schutzpolizei testimoniò:
«Ogni prigioniero fu ammanettato su entrambe le gambe con una catena lunga 2-4 metri… le pile di cadaveri non venivano bruciate a intervalli regolari, ma non appena una o due pile erano pronte, erano coperte con legno e inzuppate con petrolio e benzina e quindi incendiate.»
Nel novembre del 1943 fu sferrata una imponente offensiva dall’Armata Rossa sul fronte orientale con lo scopo di liberare Kiev. L’offensiva ottenne pieno successo grazie all’audace piano adottato dal generale Nikolaj Vatutin, comandante del 1° Fronte Ucraino, che sorprese le difese tedesche e permise alle forze corazzate sovietiche di avanzare rapidamente a nord e a nord-ovest di Kiev, sfruttando la piccola testa di ponte di Ljutež. Il 6 novembre 1943 Kiev era libera.
Per molto tempo, dopo la fine della seconda guerra mondiale, la portata dei massacri di Babij Jar fu misconosciuta, anche a causa del «punto di vista interno alla storia dell’Unione Sovietica […] dove dall’analisi della letteratura pubblicata nel paese sino alla fine degli anni ottanta è […] che la Shoah non vi sia mai stata pensata e problematizzata come un evento centrale del XX secolo»[15][16].
Babij Jar stessa nel dopoguerra «divenne il simbolo dell’atteggiamento minimalistico del governo sovietico di fronte alla catastrofe ebraica».[16][17] L’atteggiamento dell’Unione Sovietica continuò ad essere minimalista anche nel 1967 con il processo in Germania a Darmstadt contro undici imputati, processati e condannati per i crimini di Babij Jar, un processo imponente con centosessantacinque testimoni, ma su cui «la stampa sovietica, malgrado si trattasse dell’episodio più significativo dello sterminio della popolazione ebraica in URSS, non diede quasi conto del dibattimento».[15][16]
La volontà di “censurare” e “rimuovere” la memoria riguardante gli eccidi di Babij Jar, è messa in evidenza dallo studio condotto dalla docente italiana Antonella Salomoni[18]dell’Università della Calabria, e pubblicato nel suo saggio L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione del 2007. Nel suo libro la Salomoni descrive diversi “tentativi” di “censurare” la memoria da parte delle autorità sovietiche ed ucraine che per molto tempo non solo “ignorarono” il luogo fisico di Babij Jar, ma non ricordarono gli eccidi nemmeno con una semplice targa commemorativa, anche se nel 1959 il noto scrittore russo Viktor Platonovič Nekrasov«denunciava con forza come se non vi fosse nessuna lapide a ricordare il luogo in cui erano state assassinate decine di migliaia di persone».[19] Che su Babij Jar non si dovesse assolutamente parlare, «lo comprese benissimo» anche lo scrittore ebreo Elie Wiesel, simbolo della deportazione (Auschwitz, Buna e Buchenwald) e Premio Nobel per la pace, che raccontò la sua visita negli anni sessanta a Babij Jar: Il luogo non solo non compariva in nessun itinerario di viaggio organizzato dagli enti turistici sovietici, ma secondo il rapporto che ne fa la Salomoni nel suo racconto, le guide si rifiutavano sistematicamente «persino di parlare di Babij Jar. Se insistete vi rispondono: “Non vale la pena di fare un viaggio, non c’è nulla da vedere”»; a quel tempo infatti, non c’era nessuna targa e nessun monumento, nessun “ricordo” delle 100.000 vittime sovietiche che trovarono la morte in quel luogo.
La Salomoni nel suo libro rivela che il poeta russo Evgenij Evtušenko, autore di un poemache iniziava proprio con le parole di denuncia «Non c’è nessun monumento a Babij Jar», e il compositore sovietico Dmitrij Šostakovič, che nella Sinfonia n. 13 aveva messo in musica il poema, subirono forti pressioni dalle autorità del Partito affinché rivedessero i testi.[19]
La Salomoni fa notare che «solo a partire dal 1991, e non senza difficoltà e contraddizioni, sono stati pubblicati in Russia i primi ampi studi sulla Shoah»[19], come è stato Il libro nerosconosciuto di Érenburg e Grossman, con aperture verso la conoscenza della Shoah in Russia e negli stati post-sovietici, con un dibattito ancora in corso e «una strada verso una piena consapevolezza di quanto accaduto e delle responsabilità individuali e collettive [che oggi] è ancora lunga».
«Su Babi Yar stormiscono le erbacce (…) Tutto qui urla il silenzio, e sento la mia testa nuda impallidire lentamente / E sono me stesso / Un immenso grido silenzioso / Sulle migliaia e migliaia di morti sepolti”
Il massacro degli ebrei a Babij Jar ispirò il poeta russo Evgenij Evtušenko a scrivere un poema di denuncia sull’antisemitismo[21] pubblicato nel 1961. Il poema fu messo in musica l’anno seguente, dal compositore sovietico Dmitrij Šostakovič, nella Sinfonia n. 13[22][23].
Ha anche ispirato le pagine finali del romanzo L’albergo bianco (The White Hotel, 1981), scritto da Donald M. Thomas.
Fonte Wikipedia