Il primo servizio di culto officiato da una IA, durante il congresso annuale dei luterani tedeschi, non fa che portare alla ribalta mediatica un fiorente filone teologico finora noto prevalentemente agli specialisti. Il calderone della tecno-teologia è piuttosto vivace e variegato, oltre che inquietante, e dal mondo protestante – il cui ruolo è ormai stabilmente quello di tradurre in teologia i dogmi del neoliberismo materialista e consumista – minaccia di entrare nel sempre meno fortificato territorio cattolico.
«L’intelligenza artificiale manterrà la produttività in Germania» ha ribadito recentemente la sociologa Jutta Allmendinger. Parole che hanno un loro peso, nel vasto coro del globalismo europeo, vista quantomeno la posizione della studiosa, che vanta un curriculum di studi prestigioso fra Germania e USA, ma soprattutto una carriera snodatasi fra importanti istituzioni scientifiche, dal Max Planck Institute for Human Development di Berlino al WZB Berlin Social Science Center, passando per la Harvard Business School, l’Institute of Employment Research presso l’Agenzia federale per l’impiego di Norimberga e l’Associazione Sociologica Tedesca. Più ancora, però, è interessante il palco da cui la Allmendinger – a fianco del segretario di Stato parlamentare presso il Ministero federale delle Finanze, Katja Hessel – ha riproposto il ritornello: quello del Congresso della Chiesa Evangelica Tedesca tenuto nei giorni scorsi a Fuerth. Un appuntamento ancora in grado di attrarre una certa partecipazione e termometro piuttosto indicativo degli umori dell’opinione pubblica protestante. Quest’anno il meeting si è svolto all’insegna di parole d’ordine incoraggianti: dal motto Jetzt ist die Zeit (“Ora è il momento!”) a quel Kein Grund zur Sorge! (letteralmente: “Non c’è bisogno di preoccuparsi!”) con cui la rivista luterana Chrismon riassume il panelsu IA e lavoro. Un invito tante volte ripetuto nel Nuovo Testamento, certo, a partire dal celebre passo in cui Gesù esorta i suoi discepoli a non stare in ansia per il domani («perché il vostro Padre celeste sa di cosa avete bisogno») fino a San Paolo che accoratamente raccomanda ai fedeli di Filippi di restare fermi e sereni nella fede. Solo che per i luterani tedeschi quella fede sembra doversi ormai riporre in intelligenze non propriamente divine. E di qui – per l’ormai leggendaria creatività ermeneutica dei riformati – le parole evangeliche si traducono nella richiesta di adagiarsi felicemente sulle splendide ricette che il progresso tecnologico e i suoi sacerdoti hanno predisposto per il bene dell’umanità. Senza preoccupazioni e, possibilmente, senza troppe domande. Non che ci sia quel pericolo, del resto: le cronache ci informano che fra i partecipanti all’evento pochi erano i dubbi sull’IA, e larga invece la fiducia nella possibilità di una produttiva, armonica interazione fra uomo e algoritmi nei più diversi ambiti.
Si capisce come questa cornice fosse ideale quindi per l’esperimento del teologo Jonas Simmerlein, che ha proposto il primo servizio di culto officiato appunto da una IA. La quale, tramite quattro diversi avatar rispettosissimi della parità di genere, ha tenuto un sermone di quaranta minuti (scritto per il 98% dalla macchina) e ha recitato le preghiere insieme a centinaia di fedeli, fra inni a loro volta composti ed eseguiti da ChatGPT. Nulla di cui meravigliarsi, del resto: nel corso dei secoli la talpa del secolarismo ha scavato bene, e l’episodio non fa che portare alla ribalta mediatica un fiorente filone teologico finora noto prevalentemente agli specialisti (sempre che si possa ancora parlare di teologia per definire quest’ibrido semi-filosofico di criptomaterialismo scientista, post-umanesimo e bioeticismo in salsa tecnocratica). Sono alcuni anni che Simmerlein, giovanissimo docente presso la Facoltà di Teologia Protestante dell’Università di Vienna, tiene corsi di Teologia pratica dei robot e Chiesa digitale. Al suo illuminato magistero, ad esempio, tributa calorosi ringraziamenti Max Tretter, altro giovane teologo che, nel recente volume collettaneo Social Robots in Social Institutions, scrive candidamente: «Dalla mia prospettiva protestante, sono convinto che possa essere abbastanza fruttuoso portare i robot in contesti religiosi… Potrebbero aiutare i pastori umani nei loro compiti… ad esempio coaudiuvandoli nell’educazione religiosa, partecipando a rituali, assistendoli nella cura pastorale o svolgendo mansioni amministrative». Anzi, prosegue, «si potrebbe pure considerare l’idea che i robot svolgano da soli semplici pratiche religiose, come leggere sermoni e impartire benedizioni, non per sostituire i pastori ma per fornire alle persone interessate ulteriori esperienze religiose».
Peraltro Tretter, prima di concentrarsi sui suoi attuali interessi di studio (l’uso di musica hip hop nelle manifestazioni di Black Lives Matter, di cui s’intuisce benissimo la rilevanza teologica), ha preso parte a un’interessante – e piuttosto indicativa – serie di progetti di ricerca. Ad esempio il progetto PRIMA-AI, nell’ambito del quale si è occupato dei sistemi di previsione delle preferenze dei pazienti tramite IA (in sostanza si tratta di prevedere tramite un algoritmo quali decisioni il paziente in coma o in terapia intensiva prenderebbe circa le cure e le terapie a cui sottoporsi se fosse vigile). O ancora i progetti Own Data e CwiC, relativi all’uso dei dati medici nelle piattaforme informatiche (e qui si segnala uno studio sulla sovranità dei dati nelle app di tracciamento, secondo cui fra l’altro s’ipotizza che gli interessi delle aziende tecnologiche possano non ostacolare e addirittura favorire le richieste di sovranità digitale dei cittadini).
Non solo protestanti
Insomma, a voler sollevare il coperchio, nel calderone della tecno-teologia si scopre un mondo variegato. Che non è popolato solo da protestanti: ci ritroviamo dentro anche studiosi di formazione cattolica. Fra questi c’è Anna Puzio, docente presso l’Università di Twelte, specializzata in antropologia del transumanesimo e fondatrice della Rete per la teologia e l’intelligenza artificiale, fra le cui proposte più recenti troviamo un seminario intitolato «I robot pregano per me». La principale attrazione del workshop, tenuto presso l’Università della Ruhr, infatti, è stato CelesTE, il «robot da preghiera» progettato dall’italiano Gabriele Trovato, che peraltro fa seguito a SanTO, un automa che ha l’aspetto di un’icona religiosa e che – scrive Trovato sulla prestigiosa rivista torinese Filosofia – grazie alle sue abilità interattive è «fatto su misura per utenti cattolici per vari utilizzi»: contiene infatti «un sistema di dialogo, che integrato nella comunicazione multimodale composta da visione, tocco, voce e luci, guida l’interazione con gli utenti». Non per caso, nel seminario di cui sopra questi sacerdoti dell’IA lamentano lo scarso coinvolgimento dei teologi nel dibattito sulla robotica, ribadendo come innovazioni nate indipendentemente da legami religiosi trovino poi in contesti religiosi una felice applicazione, essendo «ovviamente destinate a soddisfare un bisogno spirituale di trascendenza». Esempio: «avatar in VR per la commemorazione individuale dei defunti».
Ça va sans dire, Anna Puzio, presente alla messa artificiale di Simmerlein (al contrario di qualche oscurantista che ha trovato la funzione «priva di anima», chissà perché), è rimasta entusiasta. Certo, ha avuto l’acutezza di notare che l’IA in fondo presenta anche qualche rischio, e che ad esempio potrebbe essere usata in modo improprio al fine di diffondere, anche in ambito cristiano, un solo punto di vista. Ma a prescindere da questo, ha ribadito che le applicazioni robotiche in campo religioso sono promettenti. Infatti non abbiamo dubbi che problemini di quell’entità verranno presto risolti da qualche tavolo di esperti con le solite capriole.
Da Lutero a Donna Haraway
Non solo per i protestanti, dunque, la prospettiva dell’«automazione della religione» (sempre Trovato) è un approdo da accogliere con gioia, anche se è naturale che questi fuochi s’accendano a partire da lì. Che la strada verso l’illuminismo, la secolarizzazione e il positivismo scientista parta dall’innesco luterano – sia pure per un’amara eterogenesi dei fini – lo ha già spiegato con dovizia Brad Gregory diversi anni fa nel poderoso The Unintended Reformation: secondo lo studioso, proprio «i problemi dottrinali irrisolti e i conflitti religiosi e politici nati dalla Riforma protestante hanno costretto a prendere una direzione di secolarizzazione e di separazione della religione dal resto della vita pubblica». In sostanza, quel principio del libero esame delle Scritture che moltiplicava all’infinito le legittime comprensioni della parola sacra e lacerava violentemente il mondo cristiano avrebbe costituito la premessa di un percorso assai scivoloso. Che avrebbe infine portato a risolvere il problema della persecuzione delle minoranze religiose con la «privatizzazione della religione». «Sia i cattolici sia i protestanti» – disse Gregory intervistato da Giulio Meotti all’uscita del volume – «continuavano a combattersi in Europa con pretesa di dominio l’uno sull’altro. Questa situazione generò il desiderio di trovare un fondamento comune del vivere civile che non si basasse sulla religione. Da qui la pretesa di pensare che un simile fondamento potesse essere la sola ragione umana… Ma questa soluzione ha fatto sì che la filosofia secolarizzatrice prendesse il posto della religione nel provvedere a dare risposte morali… A causa della mancanza di ideali condivisi, il nostro è diventato un liberalismo sterile, che si manifesta in modi diversi in Europa e nord America. Gli stati liberali sono diventati più coercitivi al fine di garantire la stabilità. La secolarizzazione e lo scientismo stanno sovvertendo gli assunti fondamentali della modernità dall’interno, facilitati dallo stesso liberalismo che ha risolto i problemi della coesistenza religiosa nell’Europa moderna». E che di qui all’iperpluralismo che individualizza l’etica e alle derive tecnocratiche di oggi il passo sarebbe stato breve e scontato, lo storico lo prevedeva già allora: «Se la morale, come la religione, è soltanto una funzione della preferenza soggettiva, se non c’è bene umano intrinseco e neppure una ‘natura umana’, l’Homo sapiens non sarebbe altro che un ominide adattato e non ci sono impedimenti morali alla manipolazione genetica degli esseri umani». Ma neppure alla giustificazione del postumanesimo critico che da Donna Haraway – l’autrice del noto Manifesto Cyborg – conduce alle robotiche sorti e progressive di Puzio e colleghi.
Insomma, per i beffardi casi della storia pare che, alla fine, gli austeri tecnici che oggi zittiscono i laici in nome di una scienza accessibile ai soli iniziati siano figli di quelli che cinquecento anni fa toglievano la Bibbia di mano agli specialisti per darla all’uomo comune, affinché la leggesse e la interpretasse da sé. Ma anche senza voler tornare troppo indietro, è evidente come negli ultimi trent’anni il protestantesimo storico europeo si sia fatto carico di tradurre in chiave teologica tutti i dogmi del globalismo consumista e materialista. Se oltreoceano le correnti prevalenti della compagine protestante – vedi la Moral Majority di stampo fondamentalista – hanno fatto propria la narrazione liberista in economia, col mito del successo, del denaro e del marketing televisivo, mantenendo però generalmente un’impronta puritana sulle questioni etiche, i riformati europei, storicamente vicini al marxismo e talora a circuiti massonici, hanno scelto proprio l’etica come campo in cui esercitare lo svuotamento progressivo della fede dal senso del sacro. Da loro è partito ad esempio lo sdoganamento dell’aborto, ridotto in sostanza a questione di sanità pubblica. Con conseguenti attacchi all’obiezione di coscienza, che, ad esempio secondo la pastora Ilenya Goss, membro della Commissione bioetica delle chiese battiste, metodiste e valdesi, sarebbe «un alleggerimento del lavoro» o «una disobbedienza civile a basso costo, che magari ti avvantaggia nella carriera».
Sì, perché il decantato principio della libertà di coscienza, un tempo usato per scardinare le pretese pontificie, alla bisogna può essere riposto nel cassetto. Così come l’altrettanto inviolabile diritto all’autodeterminazione e alla sovranità sul proprio corpo, improvvisamente dimenticati quando si è discusso di obblighi vaccinali e medici sospesi (si capisce: è l’emergenza), per i quali la Goss, peraltro laureata in medicina, ha riproposto sotto spoglie teologiche gli argomenti di un Bassetti o di un Pregliasco: «L’operatore che non si vaccina espone a rischio la salute degli utenti, ma anche la propria. Per questo i direttori sanitari stanno cercando di creare le condizioni per non esporre nessuno al contagio. Quando ero studente in medicina, senza vaccini anti epatite B e tbc non si poteva accedere al tirocinio. Non era in discussione la questione rischi/benefici. La vaccinazione era semplicemente una condizione per poter proseguire verso la professione». Per inciso: l’idea che i vaccini non proteggessero dal contagio, nonostante la laurea e più ancora l’evidenza dei fatti, non poteva neppure sfiorarla. E se anche lo avesse fatto, avrebbe prevalso l’ottimismo della fede (no, non in Dio: nella Scienza). La libertà di scelta invece no, non è un gran problema, salvo che nelle aree di dibattito care alla sinistra globalista, dove ridiventa per incanto dogma indiscutibile. Ad esempio a proposito del cosiddetto utero in affitto, dove ovviamente, pur nell’eterogeneità di posizioni, l’apertura non ha tardato a manifestarsi: proprio perché «l’autodeterminazione e la libertà delle donne sono principi irrinunciabili e preziosi, quando la ‘Gestazione Per Altri’ è compiuta nell’ambito di relazioni di gratuità essa può essere benvenuta e aiutare anche a costruire modelli famigliari aperti in cui le figure genitoriali siano più di due». Così le pastore e diacone delle chiese valdesi, battiste e metodiste al termine di un meeting nel 2018. Ma fra loro c’era chi già andava oltre, facendo cadere la foglia di fico di una gratuità di fatto utopica: la pastora valdese Daniela Di Carlo, per esempio, a proposito di un’eventuale transazione in denaro, già nel 2015 diceva: «Se si fissano delle regole e le donne sono tutelate non vedo niente in contrario. Ricordo negli anni ‘80 un convegno sulla prostituzione alla facoltà valdese, in cui la posizione delle donne era: c’è chi vende l’intelletto, chi il corpo, non voglio che qualcuno decida per me. In tutte le questioni spinose che riguardano l’affettività mi pare che abbiamo agito sapientemente, rimanendo fermi sull’autodeterminazione». Nelle questioni affettive si può.
Chiaro che di qui – senza dire del Dio non binario, dell’ossessione no border o dell’ecologismo ideologico, di cui il protestantesimo è avanguardia indiscussa – s’arriva serenamente alla trascendenza cercata nella robotica. Cioè alla legittimazione teologica di quella «nuova comprensione dell’umano» che vede nelcyborg la perfetta metafora dell’umanità finalmente emancipata, dove il binarismo naturale/artificiale s’infrange (come quello uomo/donna). Dove, dunque, l’IA non è diversa da noi ma anzi allarga la nostra autoconsapevolezza, liberandoci da quelle illusioni che la tradizione umanistica (e cristiana) ci assegnavano. Senza dire del transumanesimo “cristiano” come teorizzato fra gli altri da Philip Hefner, professore emerito alla Lutheran School of Theology di Chicago, che ritiene l’uomo destinato ad essere un created co-creator(altro che imago Dei!), per cui il superamento dei nostri limiti biologici sarebbe parte integrante del piano di Dio. Cosa impedisce, del resto, queste derive dopo che sono state trovate ragioni “teologiche” per desacralizzare la nascita e la vita o per accogliere pressoché ogni forma di ingegnerizzazione dell’umano? Dopo che, in buona sostanza, si è riusciti nella perversa impresa di fare della critica al sacro il luogo della teologia? Cosa impedisce che gli altari accolgano l’uomo nuovo, l’uomo nell’era della sua riproducibilità tecnica? Quel cyborg che «non è nato dal fango e non può pensare di ritornare polvere»?
E Francesco?
Come si diceva, le scintille nate in questo bacino si trasformano in fiamme capaci di propagarsi velocemente anche altrove. Ad esempio nel territorio, sempre meno fortificato, del cattolicesimo. Non solo dove le comunità cattoliche devono confrontarsi con una presenza protestante diffusa, storicamente consolidata e politicamente influente, come nell’area tedesca o scandinava, ma anche dove, pur essendo minoranza numericamente esigua, il protestantesimo si è saputo strutturare in maniera intelligente e ha intessuto rapporti ramificati con le casematte del potere: la lezione gramsciana, ad esempio in Italia, è senza dubbio servita. Del resto la secolarizzazione – complice la sintonia con il pensiero unico e onnipresente dello spirito del tempo – si trasmette per sottili meccanismi di influenza culturale: non necessita di eserciti che si provino muscolarmente nei numeri. Riuscirà dunque la Chiesa bergogliana – dopo l’appiattimento mostrato nel triennio pandemico, e con le sempre più evidenti fratture che la percorrono – a mantenersi convintamente dentro la propria tradizione, quella che Benedetto XVI ha così alacremente difeso?
Al momento non si può dire molto. Certo, il workshop Robo Ethics. Humans, machines and health, promosso nel 2019 dalla Pontificia Accademia per la Vita, si è svolto in un clima assai meno elettrizzato di quello dei laboratori della Ruhr. Non fosse che per le parole del Pontefice: «L’odierna evoluzione della capacità tecnica produce un incantamento pericoloso: invece di consegnare alla vita umana gli strumenti che ne migliorano la cura, si corre il rischio di consegnare la vita alla logica dei dispositivi che ne decidono il valore». E, mettendo in guardia dal rischio di creare «una razionalità alienata degli effetti, che non può essere considerata degna dell’uomo», Francesco ha aggiunto: «È del resto già reale il rischio che l’uomo venga tecnologizzato, invece che la tecnica umanizzata: a cosiddette ‘macchine intelligenti’ vengono frettolosamente attribuite capacità che sono propriamente umane». Se non altro, quindi, di robot dietro l’altare pare che al momento non si debba parlare. Ben diverso è stato in quell’occasione, com’è ovvio, l’approccio di Roberto Cingolani, interlocutore privilegiato e amico del mons. Vincenzo Paglia, nominato da Francesco alla guida della Fondazione RenAIssance, appositamente creata per lo studio di questi temi. Il cui direttore scientifico, il francescano Paolo Benanti, è tutt’altro che insensibile alla fascinazione delle nuove frontiere tecnologiche (né esclude un dialogo fra cattolicesimo e tecno-progressivismo transumanista), ma quantomeno ricorda che «mediante la tecnica-tecnologia non si può penetrare il mistero dell’uomo, bensì solamente indagare diffusamente sul “fenomeno” uomo nel mondo». E che «l’essere umano è dotato di un telos, è orientato a un oltre che supera il tempo e lo spazio» non riducibile alla «escatologia impropria» del postumanesimo o del transumanesimo, ossia di «quella deriva immanentista che strappa l’uomo dal suo avvenire per relegarlo in un sogno, anzi in una illusione, di immortalità tecnologicamente realizzata». Sembra già tanto.
Il terreno è insomma scivoloso, il tema poderoso e gli spazi del magistero ristretti da convulsioni interne, pressioni esterne e possibili tentazioni di fughe in avanti: cosa accadrà quando dall’affermazione di principio ci si misurerà sul piano delle concrete questioni politiche e sociali, lo vedremo. Certo è da dire che, contrariamente ai luterani di Fuerth, Benanti si pone almeno la domanda: “C’è di che preoccuparsi?”. Perché a noi sembra che la risposta sia un netto e sonoro sì.
Gavino Piga – Redazione