…”i figli dei sopravvissuti all’olocausto non appartengono al mondo dei semplici esseri umani, ma a un’altra sfera, sicuramente sacra…”
NATHALIE ZAJDE
Di Manuela Valletti
Fin da bambina avevo grande soggezione del mio papà, in realtà lui non aveva mai fatto nulla per mettermi in quello stato d’animo ma bastava che mi guardasse in modo diverso dal solito perché io scoppiassi a piangere.
Eppure lui mi amava teneramente, ero la bimba che aveva conosciuto solo al rientro da Mauthausen, mi aveva trovata seduta sul lettone e si era commosso, io avevo otto mesi e avevo rischiato di non conoscere mai il mio papà.
In verità lui non mi parlò mai della deportazione ma io sentivo che quelle visite domenicali al Villaggio dei Fiori, proprio accanto alla stazione delle Nord, celavano qualche cosa. Mi piaceva molto andare a trovare “il Crippa” aveva un bel giardinetto e io ci stavo benissimo. Papà si incontrava lì anche con altri amici, tra cui “il Marco”, mi diceva che erano colleghi di lavoro ed era vero, ma il loro legame andava ben oltre il lavoro all’ Alfa Romeo. Erano tornati tutti da Mauthausen, si erano salvati dal lager e nemmeno 5 anni dopo, cercavano di superare con quegli incontri domenicali, ciò che in realtà non avrebbero superato mai.
Lo scorrere del tempo e le cure ai polmoni avevano consentito al mio papà di riprendere una vita normale. La famiglia si era allargata, era nata un’altra bimba e con noi, in via Airaghi 44, viveva la mia nonna paterna Maria.
Fu lei a raccontarmi che papà era cresciuto in collegio, che non aveva avuto accanto il suo papà, che terminate le scuole, a 18 anni era venuto a Milano chiamato dall’Alfa Romeo e lei lo aveva seguito. La passione di mio papà per il calcio era nata in collegio e lo aveva portato prima alla Hellas Verona, poi al Seregno e infine al Milan.
Ma quando la nonna mi raccontava tutto questo, il mio papà era già Capo Servizio dei Trasporti Interni dell’Alfa Romeo. Sulla sua deportazione nessuno in famiglia diceva una parola, eppure io avevo già otto anni e “il Marco” era venuto al Battesimo di mia sorella Valeria e le nostre visite domenicali al Villaggio dei Fiori continuavano.
La cappa di silenzi e di sofferenza sotto cui tutti noi vivevamo influiva sui rapporti tra mia mamma e mia nonna che erano in perenne litigio, a distanza di tanto tempo posso dire che di certo erano le conseguenze di conflitti mai sanati della deportazione di papà: alla deportazione di mio padre mia madre aveva portato avanti la gravidanza in casa di nonna Maria, ma dopo la mia nascita era tornata a casa di sua mamma lasciando nonna da sola. Questo nonna Maria non glielo aveva mai perdonato: di papà non si sapeva più nulla e io, la sua piccola bimba, ero l’unico legame con lui.
Ero letteralmente dilaniata dai litigi tra di loro, mio padre era tra due fuochi e spesso si schierava con la mamma, io stravedevo per nonna, mamma lavorava ed era lei il mio punto di riferimento, minacciava sempre di andarsene facendomi piombare nella disperazione. Mi aggrappavo alla sua gonna e mi disperavo fino a che la scenata rientrava.
Ero una bimba tanto malinconica, ricordo che il pomeriggio mi mettevo a fare i compiti e venivo presa da una grande angoscia pensando che la nonna morisse, la guardavo e pensavo che senza di lei non avrei potuto stare….
Anche nonna Maria aveva avuto una vita difficile, un figlio in collegio a cui pensare è una famiglia distrutta dalla prima guerra mondiale. La nonna era figlia di un ferroviere e con i biglietti gratuiti delle ferrovie mi portava con se a Verona da sua sorella Palmira, questi erano gli unici momenti sereni della mia infanzia. I miei sei cugini, tutti più grandi di me, mi coinvolgevano nei loro giochi… il ricordo di quei giorni è ancora vivo nel mio cuore e dopo tanti anni sono ancora in contatto con loro.
Mia sorella invece cresceva con la mamma che era rimasta a casa dal lavoro, ma per l’atmosfera famigliare tesissima anche lei aveva attacchi di panico notturno.
Il rapporto con papà divenne bellissimo quando, terminate le scuole, andai a lavorare anch’io all’Alfa Romeo.Fu un periodo di grandi soddisfazione per me, cominciavo ad uscire da un guscio che era divenuto stretto.
Papà è io andavamo insieme al lavoro e la sera uscivamo insieme dalla fabbrica. Lo raggiungevo alla Palazzina della Direzione e andavamo a prenderci un aperitivo al bar di San Siro. Papà era felice e molto orgoglioso per il mio lavoro, aveva trovato il modo di fare anche l’allenatore per il Cesano Maderno così riusciva a lo coltivare la sua passione per il calcio.
Più gli stavo vicino e più mi rendevo conto del suo valore. Era una persona sincera e leale, nonostante il suo passato di deportato cominciasse ad emergere, aveva una visione della vita entusiastica ed un animo gentile.Lo stimavo molto anche se con lui non avevo molta confidenza.
In quel periodo facevo un corso serale di inglese e tornavo a casa verso le nove con l’autobus due volte la settimana.
Fu sull’autobus che conobbi Mario, il mio futuro marito. L’incontro tra Mario e papà fu da manuale, il motivo non era nulla di ufficiale, solo ottenere da lui il permesso di coinvolgermi in una settimana bianca a S.Martino di Castrozza con amici.
La risposta fu un indiscutibile No, e non ci fu altro da dire.
Mario rimase malissimo, ma poi lui e papà si conobbero meglio e le cose andarono decisamente bene.
Mi sposai quattro anni dopo e papà mi accompagnò, emozionantissimo, all’altare. Mario ed io andammo ad abitare prima a Bollate, poi in Via Michelino da Besozzo fino a che papà trovó per noi un appartamento nel suo stesso condominio.
Quando i miei figli frequentavano le elementari papà senti il bisogno di raccontare quanto gli era accaduto. Fu in quegli anni che scrisse gli appunti per la sua conferenza nelle scuole e mi coinvolse per batterli a macchina. Scoprii tutto ciò che aveva subito e rimasi interdetta. Papà aveva salvato la vita del Prof. Carpi per ben due volte e lui lo aveva ringraziato e citato nel suo Diario di Gusen. Aveva salvato anche i suoi quattro compagni dell’Alfa Romeo (Crippa e Marco compresi) fornendogli cibo rubato nelle cucine in cui era stato trasferito dopo aver giocato la partita di pallone con le SS.
Mi raccontó di quando mi vide per la prima volta, della sua grande emozione, del nostro pianto, il suo di gioia e il mio di timore per essere stata presa in bracci da uno sconosciuto.
Da allora il nostro rapporto divenne indissolubile, avevamo cancellato quelle zone d’ombra e quella sorta di pudore che non ci permetteva di condividere la tragedia che ci aveva travolti.
Papa mori nel 2007 e a me rimase il compito di tramandare la sua terribile esperienza, lo sto facendo da ben 13 anni, ma papà mi aiuta e lo fa in ogni modo.
Manuela Valletti