Un inviato dell’agenzia France Presse è stato il primo a entrare nel sobborgo di Kiev teatro del massacro che ha indignato l’Occidente. Intervistato dall’AGI smentisce con decisione chi parla di ‘comparse’ e ‘morti che si muovono’ e riguardo le responsabilità di ciò che è successo…
Ci sono volute tre settimane per entrare a Bucha. Settimane trascorse a Irpin, tentando tutte le strade per avvicinarsi alle zone in cui i combattimenti tra truppe ucraine e russe erano più furiosi. Settimane passate a cercare di passare attraverso i posti di blocco eretti dall’esercito di Kiev per proteggere la capitale e per tenere i civili lontani dal fronte. Il fronte, quello che nell’immaginario collettivo è una lunga trincea scavata sul fianco di una collina e che in questa guerra passa attraverso villette a schiera sfondate dai colpi di mortaio, supermercati saccheggiati e centri commerciali devastati dagli incendi.
Alla fine Danny Kemp e la sua squadra dell’agenzia France Presse riescono a trovare il modo per entrare a Bucha e sono loro le immagini che abbiamo visto passare e ripassare in tv, le clip e le foto che hanno invaso i feed dei social network, i racconti che abbiamo letto e ascoltato. Sono quelli delle prime persone a mettere piede in questo sobborgo di Kiev trasformato in un mattatoio. Kemp non si sbilancia a fare ipotesi sulle responsabilità. Con l’AGI, che lo ha intervistato ora che ha lasciato la zona di guerra, usa la cautela dettata dalla probabilità che sia uno dei testimoni chiamati dalla commissione di inchiesta che dovrà a far luce su cosa è accaduto in questo agglomerato di case in cui fino al 24 febbraio vivevano meno di trentamila persone e che tre giorni dopo l’inizio dell’invasione è caduto nelle mani dei russi.
“Quello che posso dire è quello che ho visto” dice Kemp, “e quello che ho visto non era una messa in scena e di certo i corpi che ho incontrato non si sono rialzati dopo il nostro passaggio”. Il riferimento è alla propaganda filorussa che ha cercato di bollare come falsi foto e video del massacro e su cui proprio la squadra di Kemp ha fatto ‘debunking’, ristabilendo almeno la verità sull’autenticità delle immagini.
Ma andiamo per ordine: il 2 aprile, Kemp è con altri cinque colleghi della Afp a bordo di due Suv che riescono a entrare a Bucha. Sono giornalisti, videoreporter, fotografi, l’autista e un consulente per la sicurezza: un espatriato ucraino che viaggia con loro dall’inizio della missione, disarmato. Hanno provato più volte a passare quando la città era in mano ai russi, ma senza successo. Ora che i bombardamenti sono cessati e dalla parte di Kiev si può attraversare Irpin e arrivare nel sobborgo, possono finalmente documentare cosa è accaduto.
Viaggiano da soli: non sono scortati né dalle forze ucraine né da nessun altro. Sono liberi di muoversi dove vogliono, assicura Kemp, e quando incontrano il primo gruppo di civili, uno di loro gli dice che poco lontano da lì c’è una via piena di cadaveri. Il convoglio si rimette in marcia lungo strade che portano i segni di un mese di violenti scontri. C’è la devastazione portata dai bombardamenti – case devastate, crateri – e quella dei combattimenti casa per casa: muri crivellati di colpi, auto rovesciate per creare barricate.
Poi arrivano al cuore dell’orrore. Che è una via di un quartiere residenziale, anonima, come ce ne sono innumerevoli nei sobborghi di tutta Europa. Casette a schiera, villette, cortili e vialetti. Solo che qui sono piene di corpi. Tantissimi corpi. “Abbiamo fermato le auto e siamo scesi” racconta Kemp, “È stata una visione scioccante. La strada si stendeva per 400 metri e da ogni parte c’erano cadaveri. Alcuni isolati, altri in piccoli gruppi. I primi che abbiamo incontrato erano tre, nel vialetto di una casa: uno aveva le mani legate dietro la schiena. Altri sull’asfalto in mezzo alla strada, altri con le gambe incastrate sotto la bicicletta. L’impressione è che siano stati uccisi mentre erano in giro per le loro attività quotidiane: accanto ad alcuni erano rovesciate le buste per la spesa.
Ne contano ventidue e almeno due hanno accanto il passaporto ucraino aperto, come se qualcuno li abbia identificati prima di ucciderli. Due hanno una fascia bianca al braccio. Cosa significhi, il giornalista della Afp sa dirlo. “Solo nei giorni successivi ho sentito che potrebbe essere un segno distintivo dei filorussi”, spiega.
Tra i corpi si aggirano quattro civili ucraini. Sembrano sotto choc, non parlano, quasi nemmeno fanno caso al gruppo di stranieri che scatta foto, riprende, prende appunti. “Dovevamo fare in fretta” spiega Kemp, “avevamo l’urgenza di documentare quello che vedevamo e andare via da lì prima possibile”. Non parlano con nessuno, non incontrano militari, né di Mosca né di Kiev, fino a quando non si spostano verso il centro di Bucha e trovano soldati ucraini impegnati a cercare mine tra i rottami e le macerie. “Nelle tre settimane che abbiamo passato tra Kiev, Irpin e Bucha non abbiamo incontrato un solo russo” racconta Kemp, “giusto qualche pattuglia di ucraini”.
Un altro collega della Afp arriva alla fossa comune in cui le autorità ucraine dicono di aver trovato centinaia di corpi. Chi li abbia uccisi, chi li abbia gettati lì è ancora da chiarire e anche su questo Kemp preferisce non fare ipotesi.
Ma nel frattempo la propaganda russa è stata veloce a seminare il dubbio. Se il ministro degli Esteri Serghei Lavrov si espone in prima persona, accusando Kiev di aver creato una messinscena a beneficio dei media occidentali, sui social proliferano i teorici del complotto che mettono in dubbio l’autenticità delle immagini delle stragi, arrivando a sostenere che i corpi si muovono. Ed è ancora una volta Kemp a sbugiardarli. “Nei post della propaganda, i video sono rallentati e di scarsa qualità” scrive il giornalista nel suo articolo di debunking, “ma osservando da vicino la sequenza con una qualità migliore, questi corpi non si muovono”.
Non c’è un cadavere che alza la mano: “si tratta in realtà di una goccia sul parabrezza del veicolo che riprende la scena”. Riguardo alla “comparsa che si alza” citata in alcune testate, compare due volte, a terra e due secondi dopo nello specchietto retrovisore del veicolo in un video del 2 aprile, ma anche lui è stato fotografato 24 ore dopo, il 3 aprile, dall’AFP nella stessa posizione e nello stesso luogo. Il 2 aprile, aggiunge Kemp, “abbiamo camminato per l’intera strada due volte. Abbiamo contato i corpi. In nessun momento abbiamo visto uno di loro muoversi. Avevano la pelle giallastra e cerosa e le dita rigide, alcune con le unghie scolorite. Erano chiaramente morti da diversi giorni, se non di più”.