La brezza marina entrava con forza in mezzo alla foresta portando con sè un’aria salmastra che si mescolava con l’essenza di resina dei pini. Il sentiero si inoltrava nel folto della Forêt de Bainem e mentre salivo verso le alture mi godevo questo luogo selvaggio. Sembrava incredibile come a poche centinaia di metri da dove mi trovavo, ci fosse un sacco di gente che riempiva le strade, che parlava, gridava, litigava, urlava. Qui nulla di tutto ciò, solo il rumore dei miei passi, lo scricchiolio delle foglie sotto i miei piedi e tanti uccelli e animaletti selvatici che mi spiavano attraverso i rami degli alberi. L’unico suono che mi arrivava era la chiamata del muezzin alla preghiera. D’altronde il minareto della moschea posta a poche decine di metri dalla mia casa era fornito di un altoparlante: L’Adhan, cioè la chiamata alla preghiera, viene fatta ben cinque volte dall’alba a quando cade la notte. Quella che mi arrivava in quel momento era la chiamata del pomeriggio, quella del Al Asar. Chiara e netta giungeva a tratti trasportata dal vento, ma non mi disturbava, anzi era un accompagnamento quasi melodico durante la mia salita nel bosco. Mi stavo dirigendo verso il luogo dove alcuni mesi prima avevo seppellito la mia dolce cagnetta Diana che avevo fatto addormentare dal veterinario solo due giorni dopo il mio arrivo ad Algeri perché spacciata da un tumore all’utero. Come raccontai precedentemente l’avevo portata in Algeria pur se malata perché non volevo morisse lontana da me. Dopo una curva stretta del sentiero, mi apparve il luogo dove l’avevo seppellita. Il mio era una sorta di pellegrinaggio dato che sapevo perfettamente che lei, anzi il suo corpo, non era più lì già dopo due giorni da quando l’avevo seppellita. I selvatici, l’avevano dissepolta e si erano nutriti della sua carne…per sopravvivere. Ma mesi prima ed appena arrivato in quei luoghi non avevo immaginato che ciò sarebbe successo. D’altronde non avrei saputo in che altro modo e altro luogo seppellirla. Restava una buca. Mi chinai e vidi alcuni pezzi di pelle con ancora su il pelo della mia Diana. Un sussulto e un forte magone si impadronì di me. Tutto sommato avevo condiviso con il mio cane tanti bei momenti e la mia mente si mise a viaggiare a ritroso nel tempo, negli anni dell’università quando mi accompagnava a lezione a Valle Giulia e mi aspettava tranquilla in macchina, una vecchissima Ford Taunus a due porte, color celeste, da studente spiantato, la classica auto da “combattimento”. Anzi una volta, mentre ero in aula ad ascoltare una lezione, improvvisamente il professore si zittì guardando l’ingresso dell’aula e tutti i miei compagni si girarono contemporaneamente nella stessa direzione. Diana era entrata nell’aula e mi stava cercando…Questo e tantissimi altri ricordi mi affollavano la mente. Il richiamo del muezzin mi stava suggerendo che era tardi e che dovevo rientrare.
Erano passati forse cinque o sei giorni dal mio pellegrinaggio alla tomba di Diana. Avevo parcheggiato la Land Rover sotto casa e stavo girando sul retro della palazzina dove si trovava il portone d’ingresso. A una decina di metri di distanza vidi un cane che correva zoppicando vistosamente nella mia direzione. Mi abbassai sulle ginocchia e lo chiamai dolcemente allargando le braccia. Era un incrocio con un pastore tedesco, avrà avuto un anno scarso, era un cucciolone. Sì avvicinò timoroso e quando mi arrivò vicino si accucciò davanti ai miei piedi. Cominciai ad accarezzarlo sotto il collo e a parlargli dolcemente. Mentre lo coccolavo, gli toccai la zampa posteriore destra e vidi che era gonfia ed aveva una lesione. In quel mentre sopraggiunse Josiane. ” Che succede Fabrizio, di chi è questo cane?” ” Non lo so, stavo rientrando quando mi è corso incontro, credo che abbia un problema alla zampa posteriore. Se mi dai una mano vediamo di portarlo su a casa e cerchiamo di capire cos’ha.” ” Certo cosa posso fare?” ” Solleviamolo insieme in modo tale da non far del male alla zampa, poi quando arriviamo davanti alla porta tu apri e io lo corico sul materasso in salotto” Con qualche difficoltà riuscimmo a portarlo su in casa. Era molto tranquillo, evidentemente si fidava di noi. Constatammo che lo zoppicamento era dovuto ad una recente frattura che si era risaldata, il rigonfiamento era dovuto al callo osseo che si era generato sulla spaccatura e che era molto più cospicuo perché al momento dell’incidente nessuno aveva provveduto a ridurre ed a immobilizzare la frattura. “Beh caro Fabrizio adesso hai qualcuno di cui occuparti” esclamò Josiane sorridendomi. ” Credo che sarà un ottimo amico e ti farà compagnia.”
Il cane non aveva collare nè segni di riconoscimento, e non sembrava particolarmente denutrito. Gli diedi dell’acqua e poi racimolai qualche cosa che avevo in casa per dargli da mangiare, del pane immerso nel latte con un po’ di zucchero che mangiò avidamente. Quell’incontro fortuito praticamente segnò la mia vita. Se io avessi tardato qualche manciata di secondi passando dal parcheggio al portone di casa, molto probabilmente non ci saremmo incontrati e tutto sarebbe rimasto come prima. Invece la “casualita” ?? aveva fatto sì che lui passasse proprio in quell’istante. Tra noi si instaurò un’amicizia fatta di affetto e rispetto che durò per altri quindici anni. Mi fu vicino in tutte le mie avventure algerine e per gli altri 10 anni di girovagare per l’Africa. Ma io in quel momento non lo sapevo. Ero solo contento di averlo trovato e soccorso. Sin dal giorno successivo cominciai a portarlo con me in auto e quando andavo a lavorare all’Università mi aspettava tranquillo nel cassone. Tra una lezione e l’altra lo facevo scendere e quando la domenica lavoravo tutto il giorno, nell’intervallo del pranzo, mi seguiva nel ristorante sul mare di Bordj el Kiffan, accucciato sotto il tavolo. Era la mia ombra. Lo chiamai Pippo. Ben presto iniziò a fare la guardia, a me beninteso. Non gli piacevano molto gli algerini e gli arabi in generale. D’altronde si sa che è una cosa reciproca. Non si può certo dire che per un mussulmano il cane sia un animale da proteggere e con il quale instaurare un rapporto emotivo. Per cui Pippo, probabilmente perché era stato maltrattato, era molto ostile verso di loro. Lo feci vaccinare contro la rabbia e il suo certificato era sempre nelle mie tasche. Infatti non tardò a lasciare dei segni sui polpacci di coloro i quali inavvertitamente si avvicinavano troppo all’auto o a me. Tutti temevano la rabbia quindi il mostrare loro il certificato unitamente a porgere le mie scuse e qualche dinaro di ricompensa per la paura subita di solito funzionava. Però se nessuno mostrava un atteggiamento di ostilità o di paura, Pippo era tranquillissimo in mezzo alla gente e alla confusione.
Ben presto cominciò a venire con me quando andavo a pesca. Di solito percorrendo la corniche che andava verso ovest sceglievo un punto che mi attirava in modo particolare, vuoi per la mancanza di zone abitate, vuoi per la difficoltà ad arrivare al bordo del mare, il che mi faceva pensare che il luogo doveva essere particolarmente selvaggio ed intatto, quindi fermavo l’auto dopo essermi inoltrato il più possibile verso la costa, ed a piedi raggiungevo gli scogli dai quali mi buttavo con l’attrezzatura da pesca che avevo indossato prima di scendere. Pippo mi seguiva e pazientemente si accucciava vicino alle scarpe che avevo tolto prima di indossare le pinne. Aveva imparato a scorgere il pallone cui era attaccato il fucile per cui si spostava seguendomi mentre nuotavo sottocosta senza perdermi d’occhio, salvo quando percepiva che c’era qualcuno che si era avvicinato all’auto. In questo caso tornava di corsa abbaiando facendo fuggire il malcapitato di turno. La presenza di Pippo in casa modificò radicalmente l’atteggiamento dei miei vicini. Logicamente il cane abbaiava dietro la porta quando sentiva qualcuno che passava sul pianerottolo. Il dirimpettaio iracheno cercava di fare il meno rumore possibile perché era terrorizzato dall’abbaio rabbioso di Pippo e sia lui che la sua famiglia si eclissavano dietro la porta di casa pensando che magari avrebbero potuto incrociare il mostro per le scale. Le famiglie algerine del piano inferiore, se per caso ci incontravano mentre uscivo, si spiaccicavano contro le pareti delle scale mentre i bambini esclamavano ” chien police chien police”! Insomma l’arrivo di Pippo non passò inosservato.
Fabrizio de Robertis
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