Era passato ormai un mese dalla partenza definitiva di Franco per l’Italia. Aveva completato i suoi due anni di servizio civile ed era rientrato senza rimpianti. Non si lasciava alle spalle praticamente nulla, né conoscenze, amicizie e neanche la nostalgia per il paese che lo aveva ospitato. Il suo coinquilino che era in ferie quando io ero arrivato si era messo in malattia in Italia e aveva terminato così i suoi due anni. Quindi ero rimasto solo. Ma con un grosso problema. Il Ministero dell’Istruzione, proprietario dell’appartamento dove vivevo, una volta che gli fossero giunte le informazioni che si era liberato un posto, avrebbe proceduto a riempirlo con un altro cooperante che al 99% sarebbe stato un cittadino di qualche paese arabo, probabilmente un palestinese o un iracheno o un egiziano, comunque un mussulmano. Magari avrebbe potuto essere un’esperienza positiva, ma per me, appena arrivato e con poca esperienza, avrebbe potuto trasformarsi in un incubo. Ragion per cui iniziai a contattare la sede di Roma della Società sponsor, affinché inviassero al più presto un altro italiano che avrebbe dovuto prendere il posto di Franco presso l’Epau. Mi dissero che c’era un candidato, un architetto siciliano di Trapani che aveva fatto richiesta ma che era piuttosto indeciso per motivi che loro non sapevano. Mi feci dare il suo recapito telefonico e provai a contattarlo direttamente dalla Grande Poste un giorno che ero andato a chiamare Silvia. Quando mi rispose al telefono cadde dalla nuvole. Mai si sarebbe aspettato che lo potesse chiamare qualcuno dall’Algeria. Dopo che gli ebbi spiegato chi io fossi, mi feci raccontare quali fossero i suoi dubbi circa la sua eventuale venuta ad Algeri. In pratica, Filippo, questo era il suo nome, non aveva mai messo il naso fuori di casa o dalla sua Trinacria, per cui era terrorizzato dall’idea che sarebbe piovuto in un ambiente sconosciuto lontano dalla sua famiglia. Stava seriamente meditando se partire per fare il servizio militare che comunque era una cosa che facevano tutti e che difficilmente avrebbe comportato delle sorprese. Con molta calma cercai di spiegargli quello che lo avrebbe aspettato una volta arrivato sul posto, la casa, l’Università, mentii il giusto affinché si tranquillizzasse e gli raccontai quanto fosse bella e vivibile Algeri e quanti amici mi ero fatto nei soli due mesi di permanenza. E poi, il mare, le spiagge, le belle donne disponibili e tutte pazze per gli espatriati italici, e in fondo tutto ciò per solo un giorno e mezzo di lavoro settimanale. Insomma se l’Ufficio del Turismo Algerino avesse ascoltato quanto narravo, sicuramente mi avrebbe assunto all’istante! Che figlio di puttana, qualcuno potrebbe eccepire! E invece no! Solo mera sopravvivenza. Tanto ero sicuro che una volta che fosse arrivato, Filippo si sarebbe adattato benissimo alla realtà algerina, in fondo mica veniva da Pordenone! È così, lavorandolo ai fianchi, giorno dopo giorno, spendendo una barca di soldi in telefonate, (ne feci più a lui che a Silvia), riuscii a convincerlo. Sarebbe arrivato il 7 gennaio ed io lo sarei andato a prendere a Dar el Beida. Gli spiegai quali erano le carenze gastronomiche del luogo, quindi gli suggerii di fare scorta di beni alimentari che qui non si trovavano, pasta, parmigiano, caffè, etc.
Il Natale del 1978 fu il mio primo ad Algeri e a parte un pacchettino che Silvia mi mandò tramite la posta con dentro una sciarpa di lana, devo dire che non ricevetti altro conforto… Eppure quel periodo fu molto importante per me. Iniziai a rendermi conto di quale fosse veramente la realtà in cui mi trovavo. Andavo al mercato a circa un km da casa a comprare la frutta e la verdura . I banchetti scarni posti tutti intorno ad uno slargo in terra battuta ad Ain Benian, poco offrivano se non rape bianche, ciuffi di insalata, prezzemolo, carote, ogni tanto dei datteri. Le donne che vendevano la loro mercanzia avevano tutte il velo che le copriva interamente. Raramente portavano anche la mascherina che copriva la bocca e il naso. Alcuni giorni passava un pescatore con un triciclo, cioè una bicicletta con un pianale sostenuto da due rotelle sul quale c’era la cesta con il pesce. Di fronte allo spiazzo, dall’altro lato della strada c’era il forno che produceva una quantità enorme di pane, la baguette, ben conosciuta nel mondo francofono. Croccante e freschissima, raramente arrivava a casa intera ma veniva mangiata per strada. Non era raro trovare dei mezzi filoncini di pane appoggiati su un qualsiasi supporto lungo la strada. La cosa mi aveva incuriosito per cui un giorno quando andai a comprare la mia baguette, chiesi al fornaio che si chiamava Abdelaziz, il perché. E la spiegazione mi colpì : Il Corano dice che bisogna essere caritatevoli e dare ciò che si ha di troppo a chi non ha nulla. Per cui i bravi credenti, per obbedire ai dettami della religione e ritagliarsi un posticino lassù, lasciavano il pane a disposizione di chi ne avesse bisogno.
Una sera, ero appena rientrato dall’Epau e non vedevo l’ora di buttarmi sotto la doccia, quando udii bussare alla porta. Aprii e.. magica visione, mi apparve una giovane signora sorridente, capelli neri lucidi fin sulle spalle, grandi occhi scuri, jeans attillati e ballerine. “Ciao sono Josiane, abito al piano di sopra, ti ho portato una crostata con la marmellata, ho pensato che tu da solo difficilmente ti prepareresti qualcosa per la colazione! ” “Ciao Josiane, mi chiamo Fabrizio e ho preso il posto di Franco che è rientrato definitivamente in Italia. Sei molto gentile ed anche molto carina, sì in effetti la colazione al mattino è solo a base di caffè e ti sono molto riconoscente per il tuo pensiero…ma prego entra e siediti un attimo. Se vuoi ti posso offrire un vero caffè italiano” ” Ti ringrazio ma devo preparare la cena, mio marito Alain rientra tra poco e mi devo occupare dei miei due figli, Dudù e Thomas, fargli il bagno e metterli a letto. Tu piuttosto perché non vieni a cena domani sera? ” “Devo vedere nel mio carnet di appuntamenti ma credo che ce la posso fare” ! “Ça va ça va, sei un burlone! Allora ti aspettiamo domani alle 8 ok?” Perfetto , a domani allora”!
Quando chiusi la porta iniziai a riflettere..forse la permanenza ad Algeri poteva prendere una piega diversa. La famiglia dei miei vicini francesi era composta da Alain, tipico esemplare bretone con capello lungo disordinato, fisico asciutto, sempre la sigaretta accesa au bec ,in bocca, amante della pesca subacquea, insegnava fisica all’Università e aveva sempre la testa tra le nuvole. Sicuramente saremmo andati a pesca insieme in futuro. Josiane, sui 34 anni, madre appunto di due bimbi educatissimi, Dudù ( Edoard) e Thomas, che nel corso della serata non si sono praticamente sentiti, molto simpatica e gioviale e …attraente. Sempre molto disponibile ad aiutare ed a darsi da fare per qualsiasi cosa, non lavorava ma si occupava dei figli che frequentavano la scuola francese. Avevano invitato anche un’altra coppia , Jean e Natalie, loro dirimpettai, lui modello sessantottino coi capelli lunghi naso aquilino, occhi celesti penetranti, vestito arabeggiante, con le ciabatte con la punta all’insù, tipo mille e una notte, lei
biondina capelli lisci corti, tipo spaghetti , occhi chiari, occhiali cerchiati dorati, molto magra, direi secca, anche loro genitori di una bimbetta di due anni, Magalie. Entrambi erano molto gentili e disponibili. Lui insegnava letteratura francese all’Università, lei aveva a che fare con l’Ambasciata di Francia, ma non ho mai approfondito su quali fossero i suoi incarichi.
La consapevolezza di avere dei vicini di casa con i quali condividere un mondo che mi ero lasciato alle spalle e che spesso prepotentemente mi tornava alla mente, soprattutto quando spegnevo la luce e cercavo di addormentarmi, mi faceva sentire forse meno solo. Tuttavia non erano rari i momenti di sconforto quando la distanza da Silvia sembrava incolmabile. Allora mi domandavo che senso aveva continuare a tenere in vita un rapporto che, sì durava ormai da più di sette anni ma che con la mia scelta avevo messo su un binario che inevitabilmente portava all’ineluttabile parola “fine”. Infatti paragonavo la scelta che avevano fatto i vicini francesi di venire in coppia a fare questa esperienza e mi dicevo perché io no? In realtà lo sapevo benissimo il perché. Era stata una scelta calcolata. Un’attività avviata e prospera non si abbandona per seguire un’idea, una vaga chimera che da quell’esperienza sarebbe uscito un qualche cosa di buono. Così Silvia aveva preferito restare a Roma a lavorare nella stamperia d’arte e galleria di sua madre, in via dei Greci, a un passo da Piazza di Spagna, dove circolavano i vari Guttuso, De Chirico, Clerici, Dalì, etc. i maestri contemporanei insomma, piuttosto che provare (almeno) a condividere la mia scelta. Dovevo reagire a questi pensieri negativi perché l’alternativa era piantare baracca e burattini, prendere l’aereo e illico et immediate essere imbarcato come marinaio semplice su qualche nave da guerra, dopo essere stato acciuffato dai carabinieri non appena sbarcato a Fiumicino!
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