Uno dei luoghi più frequentati di Algeri era la “Grande Poste” cioè gli uffici della posta principale situata in pieno centro città in un edificio tipico coloniale prospiciente una grande piazza. Noi espatriati la frequentavamo unicamente perché lì c’era la possibilità di telefonare a casa. Detto così potrebbe sembrare una banalità. In realtà andarci era una scommessa. Arrivare in auto nei pressi dell’edificio era molto complesso. In primo luogo era praticamente impossibile trovare un parcheggio e poi anche se lo trovavi dovevi sperare che i poliziotti non ti affibbiassero una contravvenzione ( soprattutto vedendo che la tua targa era gialla e blu e quindi eri uno straniero), questo se eri fortunato, viceversa dato che nessuno in Algeria pagava le multe ( ad eccezione logicamente degli stranieri), la tua auto veniva robustamente immobilizzata con un ” sabot” cioè una ganascia di ferro applicata su una ruota che praticamente ti impediva di andar via. A quel punto dovevi recarti presso il comando della polizia munito del foglietto che diligentemente i gendarmi ti avevano messo sotto il tergicristallo e pagare fior di dinari per poter recuperare l’auto. Ma attenzione il tutto non era affatto contestuale. Cioè tu pagavi e ti venivano a togliere il maledetto sabot subito… No! Tu pagavi e quando il camioncino della polizia passava davanti alla tua auto e sul parabrezza c’era un cartellino arancione che era la dimostrazione del pagamento da te scrupolosamente messo in bell’evidenza, allora e solo allora, procedevano a levare la ganascia….e ciò poteva accadere anche il giorno seguente! Quindi questo era il primo punto. Direte, vacci coi mezzi pubblici…non so se ricordate come descrissi gli autobus di Algeri… il postulato dell’impenetrabilità dei corpi… la fila chilometrica alle fermate e la successiva lotta all’arma bianca per salirci sopra…etc.etc. quindi no, proprio no! va bene che sono venuto a lavorare in un paese in via di sviluppo, che l’obiettivo è quello di amalgamarmi con la popolazione locale, di immedesimarmi nei loro problemi…ma c’è un limite a tutto! Comunque una volta raggiunta la Grande Poste iniziava la seconda fase, il secondo punto e cioè mettersi in fila per arrivare davanti ad uno dei due sportelli dove un impiegato si sarebbe fatto carico di ricevere i tuoi dati, nel mio caso il passaporto, segnarsi il numero telefonico e la città cui telefonare, dopodiché non restava che mettersi appoggiato contro il muro o un pilastro dell’immenso ambiente, alto probabilmente una ventina di metri con il soffitto ad archi, bianco accecante, insieme ad un centinaio di sfigati per lo più provenienti da: Tunisia, Marocco, Tchad, Niger, ma anche Iran, Iraq, Egitto, Russia, Cuba,e chi più ne ha più ne metta, che volevano parlare con i loro cari rimasti a casa. C’erano quattro cabine e nel caos generale dovevi stare attentissimo a non perdere il tuo turno quando il telefonista ti chiamava nominando il paese o la città due o tre volte, dopodiché se non andavi tornavi in coda e a quel punto avevi passato la giornata alla Grande Poste. Per inciso a me era successo che i poliziotti avessero provato a mettere il sabot ad una delle ruote della mia Land Rover ma la larghezza del cerchione e dello pneumatico non glielo aveva consentito . Quindi avevano atteso il mio ritorno per potermi affibbiare la multa incazzati come zanzare. Arrivando da una strada situata più in alto rispetto al parcheggio, avevo avuto moto di accorgermi del trambusto in quanto c’erano ben due auto della polizia e almeno 5 gendarmi che ronzavano intorno alla mia Land Rover. Erano circa le 19 e quindi feci finta di nulla, passai davanti senza fermarmi e proseguii lungo la via laterale e mi sedetti su una panchina ad aspettare e tenere la situazione sotto controllo. Dopo circa venti minuti le auto partirono in simultanea lasciando sul posto un poliziotto solo. Dopo altri 10 minuti anche il poliziotto se ne andò. Aveva terminato il turno! Attesi ancora qualche istante e di corsa zompai in macchina misi in moto e partii di gran carriera. Purtroppo la mia auto aveva dipinta sul lato sinistro, quello del passeggero, una cartina dell’Africa grande quanto lo sportello quindi molto riconoscibile. (il vecchio proprietario che l’aveva acquistata a Londra direttamente dalle aste della Royal Army, aveva dipinto quella cartina perché il suo sogno era quello di fare il giro dell’Africa. Poi per una serie di motivi non era più partito e l’aveva messa in vendita.) Pertanto in svariate occasioni successivamente passando per il centro di Algeri ero stato fermato dalla polizia che aveva riconosciuto l’auto e mi aveva chiesto i documenti per cercare in tutti i modi di farmi pagare una contravvenzione. Alla terza volta decisi di provare la carta della corruzione. Quando il poliziotto mi chiese la patente feci scivolare al suo interno un biglietto da 1usd. ” Bon, bon ça va,vous pouvez partir Monsieur. Au revoir! Arriviamo al terzo punto. Cercavo di mantenere con Silvia un rapporto telefonico oltre che epistolare quindi quando mi recavo alla Grande Poste facevo di tutto per accaparrarmi la simpatia dell’operatore perché avevo capito che quando la telefonata durava troppo a lungo lui faceva cadere la linea e così passava alla chiamata successiva. Quindi se riuscivo in qualche modo ad arruffianarmelo sapevo che potevo parlare con Roma tutto il tempo che volevo. Dopo alcune volte ormai conoscevo gli impiegati ed il loro nome. Erano sempre gli stessi, due uomini e due donne. Karim, Rachid, Latifa e Nadia. Gli uomini me li comprai con pacchetti di Marlboro le signore utilizzando certo il mio charme ( mi vien da ridere), ma soprattutto i campioni di profumo, il tutto preso al duty free dell’aeroporto di Fiumicino. Bisogna tener presente che la realtà in cui vivevano queste persone non era dissimile dal regime comunista russo dove tutto era di stato e nei negozi non si trovava nulla. Il mercato nero era fiorente e bisognava adattarsi. Cosa che io fui costretto ad imparare molto velocemente per non soccombere. A proposito di aeroporto devo dire che per lasciare il paese per esempio per rientrare in Italia per le feste di Natale, c’era bisogno del permesso firmato dall’ente algerino per il quale si lavorava, nel mio caso l’Epau. Inoltre abitando in un appartamento messa a disposizione dall’ente, dovevi essere in regola con tutti i pagamenti delle varie utenze. Quando alla fine riuscivi ad avere tutti i pezzi di carta in ordine da presentare al tuo datore di lavoro perché ti concedesse il sospirato “titre de congés”, dovevi fare i conti con Monsieur Ikene che se per qualche motivo ce l’aveva di traverso, le tue vacanze te le potevi dimenticare. Questo però succedeva solo se eri residente! E quindi l’importante era non far mai passare più di tre mesi dall’ultima uscita dal paese. Non fosse che per un solo giorno. Avendo capito l’antifona, programmai la mia vita in funzione del fatto che praticamente ero un turista, pur se lavoravo. Niente carta di residenza, niente patente, usavo quella internazionale, nessun contratto telefonico o di altra utenza che inevitabilmente presupponeva la residenza, insomma per tutti i quattro anni che passai in Algeria, non ho mai avuto bisogno di chiedere il “permesso” a Monsieur Ikene per andare in ferie. D’altronde l’impegno dell’insegnamento era di 12 ore settimanali, raggruppate in due giorni, la domenica dalla mattina alla sera, ed il martedì, tutto il pomeriggio. Quindi mettendomi d’accordo con i colleghi e saltando una domenica ed un martedì sarei riuscito a passare in Italia 10 giorni puliti. In realtà non l’ho mai fatto vuoi per correttezza professionale vuoi perché il viaggio costava parecchio ed io guadagnavo pochissimo, vuoi anche perché preferivo visitare nei giorni liberi il paese immenso in cui mi trovavo che ero sicuro avesse tantissime cose da vedere e volevo approfittarne al massimo. In realtà questo mio status mi garantiva in qualsiasi momento di andare a Dar el Beida, l’aeroporto di Algeri e partire con il primo volo se mai ce ne fosse stata la necessità senza dover dipendere da nessuno e questo mi faceva sentire libero.
Fabrizio De Robertis
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