Cosa cambia per l’Italia in Europa (cioè per i nostri interessi nazionali) con un Primo Ministro come Mario Draghi?
Per comprenderlo bisogna partire dalla geniale battuta di Indro Montanelliche diceva: “quando si farà l’Europa unita, i francesi ci entreranno da francesi, i tedeschi da tedeschi e gli italiani da europei”.
Le parole di Montanelli fotografavano perfettamente quella che sarebbe stata la stagione di Prodi e Ciampi, per dire i due nomi simbolo dell’europeismo ingenuo, retorico ed entusiasta degli anni Novanta e Duemila. Era l’europeismo italico che vedeva l’Unione Europea come un felice prolungamento di “Giochi senza frontiere”, sulle note dell’Inno alla gioia, mentre gli altri Paesi sgomitavano per far prevalere i loro interessi nazionali. Ci è costato salato: anni di collasso economico.
Ma dopo è arrivato un europeismo perfino peggiore, quello del Pd: una sorta di religione laica, un dogma indiscutibile che esigeva muta obbedienza adorante. Sono stati gli anni in cui i governanti italiani andavano a Bruxelles, in pratica, a prendere ordini, venendo trattati, più o meno, come, nelle ville signorili dell’Ottocento, si trattavano i dipendenti.
Memorabile ed emblematico di quella stagione è l’episodio del 7 febbraio 2018, quando l’allora premier italiano Gentiloni si recò a Berlino per un bilaterale con la Merkel e la Cancelliera lo rimandò a Roma senza riceverlo per sopravvenuti impegni (naturalmente i media si guardarono bene dall’infierire…).
Ebbene, possiamo dire con una certa sicurezza che un episodio del genere non potrà accadere con il presidente del Consiglio Draghi. Né accadrà che lui vada a Bruxelles a prendere ordini.
Escluderei pure un ritorno al disastroso europeismo ideologico-romantico di Prodi e Ciampi, perché Draghi ha dimostrato di sapere molto bene che stare in Europa non è un idillio, né una serata al Club del Golf, ma – se si vuole conseguire un risultato giusto – significa “lotta dura, senza paura”.
Lui in effetti ha combattuto in modo formidabile, come Governatore della Bce: eppure, “inventandosi” il Qe (di cui tutti oggi riconoscono la genialità e il valore), aveva contro nientemeno che la Germania.
E’ stata una guerra durissima. Dalla Germania ha ricevuto attacchi pesantissimi: i giornali tedeschi lo accusavano di “giocare con i soldi dei risparmiatori tedeschi” o di “rovinare il futuro dell’Europa” o di voler mantenere un’“Italia scroccona” col suo “whatever it takes”.
Sono arrivati, sulla copertina di un noto giornale, a rappresentarlo come Dracula con questo titolo: “Così il conte Draghila succhia i nostri conti correnti, svuotandoli”. E poi – più pesanti – le critiche esplicite del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, secondo cui la Bce “dal mio punto di vista si è spinta oltre il dovuto”. Si può immaginare come e quanto Draghi abbia dovuto lottare nel Consiglio della Bce.
Fatto sta che ha vinto e vincere contro la Germania (o almeno una parte importante di essa), soprattutto per un italiano, è qualcosa di epico. Ha vinto, ottenendo alla fine il riconoscimento generale, perché aveva ragione e ha vinto con stile, autorevolezza, saggezza politica e un coraggio da leone.
Questa vicenda basta da sola per farci ritenere che, con lui a Palazzo Chigi, verrà archiviato il vecchio europeismo, quello degli ultimi trent’anni, e dovrebbe iniziare un europeismo in cui finalmente anche l’Italia, come già fanno Germania, Francia, Olanda e compagnia, difenderà e tutelerà i propri interessi nazionali.
Potremmo dire – parafrasando Montanelli – che dopo tre decenni anche gli italiani andranno in Europa da italiani, come i tedeschi ci stanno da tedeschi e i francesi da francesi.
Sulla concezione che Draghi ha dell’Unione europea poi si dibatterà a lungo. Nella lezione che fece all’Università di Bologna, il 22 febbraio 2019, in occasione del conferimento della Laurea ad honorem in Giurisprudenza, espresse il suo pensiero. Si può dire – rileggendo quelle sue parole – che non c’è traccia di retorica europeista, né di ideologia o di vaghi sogni.
Il suo europeismo è molto pragmatico, da economista. Egli invita a cercare – nel tempo della globalizzazione – il punto di equilibrio fra i vantaggi della cooperazione e dell’integrazione e i valori della sovranità e dell’indipendenza, ritenendo che non vi sia contrapposizione fra i primi e i secondi, ma che, anzi, siano armonizzabili.
La cifra che contraddistingue Draghi sembra essere il realismo che si accompagna all’avversione nei confronti di ideologismi, utopismi, moralismi e massimalismi.
Non a caso egli volle concludere quella lezione bolognese citando un meraviglioso pensiero del papa emerito Benedetto XVI, contenuto in un suo famoso discorso di 40 anni fa: “Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale… Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole… Non è morale il moralismo dell’avventura… Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”.
Quelle parole di Ratzinger, oggi, in questa povera Italia devastata da una crisi ventennale e da una pandemia che l’ha messa in ginocchio, in questa Italia che si ritrova in macerie come dopo una guerra persa, possono essere il perfetto manifesto del “governo di tutti” guidato da Draghi.
Un governo che storicamente e moralmente – come ha detto Matteo Salvini – si richiama all’esecutivo di unità nazionale di De Gasperi, nel dopoguerra. E che oggi potrebbe fare il “miracolo” di spazzar via tutti i veleni, gli anatemi e gli odi ideologici che da anni ammorbano il nostro Paese e soffocano ogni confronto costruttivo.
Antonio Socci