L’America è un paese diviso a mano armata. Quello che sta avvenendo tra i democratici e i repubblicani non attenua, non unisce, non pacifica, ma aumenta il rischio di una guerra civile di cui abbiamo visto solo i bagliori.
La colpa di Trump è quella di non aver mai tenuto conto di una verità che la Storia offre gratis a tutti: la massa ha un limite di manovra per qualsiasi leader carismatico, superato quello, diventa ingovernabile, assume una propria fisionomia e diventa “muta di guerra” (Elias Canetti, Massa e Potere).
La sua responsabilità politica è evidente, non è una questione di intenzionalità o meno – il fatto è squadernato – si tratta dell’incapacità di Trump di leggere (e reggere) il contesto del 6 gennaio scorso: il conteggio dei voti in Georgia, la seduta del Congresso per la certificazione dell’elezione di Joe Biden, la manifestazione degli elettori di Trump sull’Ellipse di fronte alla Casa Bianca. Tre scenari, due Americhe.
Trump in quel giorno più che mai avrebbe dovuto mantenere l’equilibrio tra la sua figura di capo di un movimento e quella del presidente degli Stati Uniti d’America. Il primo parla ai suoi elettori e tiene la sua linea politica, ma nel farlo deve ricordare che il secondo rappresenta l’istituzione e un’idea fondamentale – la democrazia in America – che perfino se avesse ragione (e sul voto non ce l’ha nei termini in cui la pone, i brogli non sono provati) dovrebbe in ogni caso rappresentare dentro una cornice istituzionale, con atti formali precisi, in un quadro di moderazione e rigore costituzionale. Il primo ha annullato il secondo, il capo politico ha travolto il presidente, questo è il problema.
Come si risolve la crisi? I democratici parlano di impeachment e 25 emendamento, cercano di indurre Trump alle dimissioni e fanno pressione sui repubblicani affinché convincano il presidente a lasciare prima del 20 gennaio. Sono tentativi che per ora sembrano destinati ad andare a vuoto: Trump non vuole dimettersi, il Gop non ha alcuna influenza sul presidente, semmai è il contrario, è Trump che condiziona il partito perché possiede una cosa che non ha nessun altro, il consenso espresso due mesi fa da 73 milioni di americani, Trump ha i voti. E tra due anni ci saranno le elezioni di medio-termine. Due anni sono lontani? No, sono vicinissimi, la politica americana è una prova continua.
Sul taccuino del cronista c’è la domanda del compagno Lenin: che fare? Il problema di Trump si risolve con la politica, non con i tribunali. Non è in gioco il destino di una persona (se così fosse, sarebbe già una storia finita), ma quello di una nazione. In un paese lacerato profondamente come l’America una condanna di Trump, una sua rimozione anticipata, sarebbe non la soluzione, ma un altro trauma. Quello che sta avvenendo tra i democratici e i repubblicani non attenua, non unisce, non pacifica, ma potenzia la dimensione cospiratoria della politica americana, aumenta il rischio di una guerra civile di cui per ora abbiamo visto solo i bagliori.
L’irruzione in Campidoglio (con la polizia che spalanca le porte, surreale) è l’apice di un ciclo di violenze che rischia di proseguire in forme ancora più gravi. Dimenticare le rivolte – e i morti – solo di pochi mesi fa nei sobborghi dell’America, nel pieno della campagna presidenziale, e’ un grave errore, da parte di tutti. E’ vero che sono sempre i vincitori a scrivere la storia, ma quella raccontata dai dem non è tutta la storia.
L’estremismo e la violenza non sono un’esclusiva della destra americana, sono purtroppo una presenza rilevante anche a sinistra. Le sigle dell’AntiFa e i gruppi violenti non sono scomparsi, al pari delle milizie bianche e dei suprematisti di ogni risma. I partiti americani inoltre non sono come quelli europei (un glorioso residuato bellico del Novecento, in cerca di un senso e in via di estinzione), non sono un “corpo intermedio”, si mobilitano durante le elezioni, poi lasciano il campo alla legislazione, all’azione esecutiva e al diritto, al Congresso, al Presidente e alla Corte Suprema. Ma anche queste istituzioni soffrono, hanno un problema sempre più grande di identità, velocità e rappresentazione in un mondo che è sconvolto dal primato della tecnica sulla politica. In questo scenario, l’America è un paese diviso e a mano armata.
E’ un quadro politico che non a caso esplode nel finale di partita di America 2020, con la pandemia e l’isolamento fisico (e metafisico) della mente americana, la sua proiezione ormai dominante in via esclusiva sui social media, il luogo dove siamo tutti insieme e in realtà tutti siamo soli (leggere “Alone Together ” di Sherry Turkle per un’analisi degli strumenti e degli effetti, una nuova psicopatologia della massa), la piazza smaterializzata del sogno e soprattutto dell’incubo. Questa esperienza sui social media ha sostituito da tempo la realtà, ha reso possibile l’impossibile, alimentato l’idea che la mediocrità possa sostituirsi all’eccellenza, scambiato i like per il consenso e fatto del dissenso la pratica quotidiana dell’insulto e della diffamazione.
Quando la polvere si sarà posata, la storia allora sarà puntuale, onesta e inesorabile anche con i social media e il mondo delle Big Tech, su loro pesa l’enorme responsabilità di aver alimentato, favorito, moltiplicato il degrado del dibattito pubblico fino a ridurlo a un paesaggio di macerie fumanti.
E qui veniamo al paradosso terminale – non l’ultimo, altri ne stanno arrivando al galoppo – di questa storia: Twitter che sospende “et nunc et in perpetuum”, per ora e per sempre, il profilo di Donald Trump. Torniamo alla matrioska americana. Il problema non è piu’ la figura sulfurea di The Donald, la bambola grande ne contiene altre, radioattive.
La bambola grande ora è esposta in un baraccone del Luna Park e viene presa a pallate dagli alfieri della democrazia. I più zelanti nel prendere a calci e sputi Trump sono gli agenti della Buoncostume delle Big Tech che lo hanno espulso dal loro giardino delle delizie non commestibili. Nel Colosseo in Terabyte della contemporaneità, il popolo applaude e fischia; ieri i dittatori, oggi il Signor Ceo, sempre “panem et circenses”.
I sacerdoti del social network – noti al mondo per aver ridotto il dibattito pubblico a una latrina, aver trasmesso omicidi e torture in diretta e dato voce allo stomaco dei depravati del pianeta (cosa che continuano a fare), hanno indossato l’abito dei censori a una dimensione, così è partita quella che passerà alla storia come la prima grande purga politica dei social media. Finalmente il predicatore di Manhattan e’ stato sospeso a divinis, non potrà più amministrare i sacramenti sui social.
Il mondo ora è salvo? Tutti possono continuare a vedere Reality Show e serie tv senza aver mai frequentato un corso di educazione civica, leggere un fiume di fake news su Facebook, infamare il vicino con un account anonimo sui social, proseguire un’esistenza in pixel, denunciare i nemici della rivoluzione permanente, giocare a sparatutto (qualcuno come abbiamo visto poi passa all’execution sparando sul serio e trasmettendo online, sui social, la sua impresa) e comprare il Made in China su Amazon. Il miglior mondo possibile, finalmente.
Dall’altro lato della barricata, i cospirazionisti sono già all’opera. Questa per loro è la prova del Complotto, l’ora è scoccata, che si indossi l’armatura, sta arrivando il Grande Reset, bisogna andare nelle catacombe a pregare, organizzare le riunioni carbonare, prepararsi alla resistenza, costruire un nuovo social network nel dark web, preparare il bastimento, attendere gli ordini superiori, oliare i fucili, levare l’ancora e partire per una nuova Lepanto. La guerra, finalmente.
Trump con il suo comizio no limits ha dato alle Big Tech un ottimo gancio (sbagliato, come vedremo) per appendere il suo bando dai social, proprio quello che mancava all’appello (e altro arriverà) per alimentare meglio l’incendio americano. Restano solo alcuni dettagli sui quali gli intellettuali non danno segni di vita: che ne è della favola dei social network come arena della democrazia? Una strofa dei Doors: “This is the end. Beautiful friend. This is the end. My only friend, the end”.
Siamo alla fine della fiction sulla neutralità politica delle piattaforme online, Twitter, Facebook, Google, Apple hanno un potere che, senza regolamentazione, sovrasta quello dello Stato: sono in grado di decidere chi parla e chi non parla. Non solo, attraverso l’hosting e il cloud computing controllano un pezzo fondamentale dell’infrastruttura di Rete, sono il punto d’accesso. Chiuso quello, chiuso tutto. E’ un tema ben più grande della vicenda umana e politica di Trump, riguarda la libertà di parola (e di stampa, l’editoria ha i suoi sistemi in cloud), d’associazione e di impresa, la libertà tout court.
Le Big Tech hanno il controllo dei dati, l’irresponsabilità penale (al contrario degli editori e dei giornalisti) su quello che pubblicano sui social, sono oligopoli senza confini che accumulano immense ricchezze off-shore, lavorano per battere moneta (vedere il progetto Lybra di Facebook), le criptovalute sono l’ultimo anello che manca per giungere alla forma di Tera-Stato. Sono già in circolazione piu’ di 1500 strumenti che fanno il lavoro delle cripto-valute, grande è la confusione finanziaria sotto il cielo. La storia passa dalla velocità di dispiegare gli eserciti a quella del trasferimento dei dati in Bps, i Bit per secondo hanno sostituito gli Hercules.
Sono il nuovo Leviatano. Così oggi parla Biden e non parla Trump. Domani potrebbe toccare a un altro, in un contesto storico diverso (e la storia procede a balzi, non è lineare), il caso è costituito, il precedente cementa la consuetudine. Chi controlla il controllore? Nessuno, perché de facto si eè sostituito alla politica, fa politica.
La grande purga dei repubblicani – sono migliaia gli account cancellati e non c’è un report pubblico che ne dia conto – è un fatto che fa a pugni con la realtà, perché su Twitter si tiene ogni giorno il festival dei dittatori e dei satrapi in servizio permanente effettivo.
Il Grande Ayatollah Ali Khamenei ha appena aperto il suo profilo Twitter anche in italiano, parliamo del leader di uno Stato che impicca gli oppositori del regime, ha ribadito l’idea della cancellazione di Israele, tanto che qualche giorno fa l’agenzia Isna ha battuto la notizia della presentazione di un disegno di legge che fissa la data del piano (“eliminazione di Israele entro marzo 2041”), un obiettivo politico-militare che persegue in tandem con un altro profilo cinguettante, quello di Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah.
Su Twitter esercita il suo alto insegnamento democratico anche Nicolas Maduro, presidente illegittimo del Venezuela secondo gli Stati Uniti e l’Unione europea. La Corea del Nord – il cui leader, Kim jong-un, ieri ha minacciato l’amministrazione Biden dicendo di essere pronto riprendere lo sviluppo del suo arsenale nucleare – ha il suo news service su Twitter più che mai attivo. Sul recente passato, stendiamo un velo pietoso: abbiamo visto gli account dei terroristi dell’Isis, servizi di messaggistica usati come mezzo per organizzare le operazioni di guerriglia, ci sono tonnellate di testimonianze, audizioni, report dell’intelligence e dei think tank che si occupano di sicurezza, sui social media diventati piattaforma del terrore. Trump fuori da Twitter, la Woodstock del Male dentro. Siamo oltre la distopia della science fiction, è la realtà.
Gran parte della politica contemporanea è allevata sui social media, è pervasa di populismo, mancanza d’equilibrio, avvelenata dal manicheismo.
Una persona seria e equilibrata come Enrico Letta ha fatto notare come questo sia un passaggio a rischio per le democrazie: “Premetto che penso tutto il male possibile di Trump. Però la decisione, quella definitiva, di Twitter lascia aperti molti, troppi interrogativi”.
Sono domande gravi, riguardano i fondamenti della libertà, del nostro stare insieme in un mondo pieno di minacce concrete, i social network oggi decidono chi parla e chi non parla. Il segretario di Stato, Mike Pompeo, un altro politico con la testa sulle spalle, motore di una diplomazia che – piaccia o meno – ha cambiato in meglio (con il contributo decisivo di Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il leader degli Emirati Arabi Uniti), la mappa del Medio Oriente, ha riassunto quello che sta accadendo: “Mettere a tacere e’ pericoloso, e’ anti-americano. Purtroppo, questa non e’ una nuova tattica della sinistra. Hanno lavorato per anni per mettere a tacere le voci opposte. Non possiamo lasciare che zittiscano 75 milioni di americani. Questo non e’ il Partito Comunista Cinese”.
Sono problemi che toccano i nervi scoperti della nostra identità, la questione aperta dell’Occidente, del suo declino e del nostro “Essere nel mondo” che il filosofo Emanuele Severino ha colto nella contemporaneita’: “Evitare che il fine ostacoli e indebolisca il mezzo significa assumere il mezzo come scopo primario, cioé subordinare ad esso ciò che inizialmente ci si proponeva come scopo. Le grandi forze della tradizione occidentale si illudono dunque di servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi: la potenza della tecnica e’ diventata in effetti, o ha già incominciato a diventare, il loro scopo fondamentale e primario”. Messa in prosa giornalistica, suona così: i social media cosa sono? Il mezzo o lo scopo? La risposta è di un’inquietante semplicità: i fatti dimostrano che sono diventati lo scopo. Con essi, è defunta la politica, è stata divorata dal mezzo.
Tutto questo accade mentre la Cina invade i social media con la sua potente macchina della propaganda e si prepara a sostituire gli Stati Uniti come prima potenza mondiale, la stessa Cina che non ha ancora autorizzato l’Oms a indagare sull’origine del coronavirus a Wuhan (suscitando la “delusione” dell’Oms). Accade mentre l’Iran arricchisce l’uranio oltre la soglia del 20% e l’Ayatollah Ali Khamenei pubblica sul suo account Twitter in italiano parole che dovrebbero indurre a qualche riflessione tra i capi di Stato: “Avete visto la condizione dell’America? Questa e’ la loro democrazia e questo il loro pasticcio elettorale. L’America e ‘i valori americani’, oggi vengono derisi persino dagli amici dell’America”.
Non solo, la Guida Suprema dell’Iran scrive che “l’America vede i suoi interessi nell’instabilita’ della regione, e lo dicono apertamente. L’America, nel 2009, voleva creare una guerra civile in Iran e Dio l’Altissimo, nel 2021, ha inflitto loro la stessa disgrazia”. Stupefacente. Nel 2009 in America il presidente era Barack Obama, dove sono gli avvisi di Twitter sul fatto che l’affermazione di Khamenei è come minimo controversa se non falsa? Rapidissimi nel segnalare che Trump è un bugiardo seriale, smemorati e assenti con i tiranni. Nel vortice di una decisione-boomerang, lo stesso giorno in cui bannava definitivamente Trump, Twitter ha rimosso un post di Khamenei sui vaccini, il leader religioso esultava per aver messo al bando i farmaci provenienti dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, dicendo che il loro scopo era quello di usare gli iraniani come cavie: “Le aziende straniere volevano darci i vaccini così da farli testare sul popolo iraniano, ma il Ministero della Salute lo ha impedito” e dunque Teheran “acquistera’ vaccini stranieri sicuri”. La guerra geopolitica con la menzogna sui vaccini. Il profilo di Khamenei è ancora attivo.
La matrioska alla fine mostra il tema più profondo, quello del destino dell’Occidente. Non bisogna farsi grandi illusioni, questo tempo sembra dar forza alle teorie dei grandi cicli storici, dagli studi di Arnold Joseph Toynbee al molto citato e poco letto Oswald Spengler de “Il tramonto dell’Occidente” (il primo tra l’altro con nette differenze rispetto al secondo). In ogni caso, l’ascesa e la caduta degli imperi, sono un fatto e la loro parabola e’ un memento, non ci sono imperi eterni, tanto meno quello oggi magmatico degli Stati Uniti d’America. Pochi in Europa sembrano aver compreso la posta in gioco, riguarda anche il futuro dell’Unione, condannare l’irruzione in Campidoglio e’ giusto, ma questo non risolve il problema di un’America spezzata che – giusto per toccare un tema tra i tanti disponibili – è la forza-guida della Nato, cioé l’unico ombrello militare a disposizione di un Continente Vecchio che e’ da tempo preda e non predatore. Quello che accade a Washington, cambia la curvatura dello spazio europeo.
La velocità e la forza del declino possono variare, siamo in una dimensione di arretramento delle democrazie, ma l’impatto può essere meno violento se non si alimenta l’incendio. Il problema urgente, ora, e’ la stabilita’ degli Stati Uniti. Il quadro interno dell’America e’ preoccupante a livelli inimmaginabili. Un report di Rabobank intitolato “Insurrection” pone la questione in termini chiari: “La domanda ora è: questo è il culmine dei disordini negli Stati Uniti, o è solo un altro segnale d’allarme sul paese sta andando verso qualcosa di peggio?”.
Il “meccanismo della polarizzazione” sembra “auto-rafforzarsi”. Servono decisioni politiche sagge, moderazione, da parte di tutti. I democratici per ora si muovono come se avessero conseguito una travolgente vittoria, ma hanno perso seggi alla Camera e controllano il Senato per un soffio. Joe Biden ha parlato sempre dell’avvio di un’era di conciliazione, ma l’orologio della storia corre e il giorno del suo insediamento, il 20 gennaio, ci saranno due Americhe e la messa al bando della ragione.
di Mario Sechi