La battaglia di Mezzo Giugno: la Royal Navy non passa nel Mediterraneo | Il  Primato Nazionale
Dalla Battaglia di Pantelleria (fonte Marina Italiana)

Era una mattina di giugno circa le 12, quando un uomo sui 70 anni, vestito con un doppio petto grigio e in testa un cappello a tese larghe calcato sugli occhi, si avviò verso la fermata dell’autobus 58 a piazza San Silvestro a Roma in pieno centro. In realtà era il capolinea della corsa e sul marciapiede sotto la pensilina c’erano una ventina di persone. L’autobus arrivò dopo pochi minuti e all’apertura delle porte un nutrito numero di passeggeri scese in fretta: insieme a loro uscì il classico odore di aria viziata mista a sudore e di una umanità poco pulita. L’uomo mostrò al conducente un tesserino ed entrò dalla porta anteriore per andare ad occupare uno dei due posti situati a fianco dell’ingresso riservato ai reduci di guerra, agli handicappati o, eventualmente, alle donne in stato interessante. Dopo pochi minuti, il mezzo ormai pieno, chiuse le porte e partì inserendosi nel traffico di Via del Tritone. Faceva spesso quella tratta perché da quando era andato in pensione si era dedicato alla filatelia e si recava periodicamente alla posta centrale ad acquistare delle serie di francobolli  appena uscite. Di solito quei posti erano lasciati liberi ma capitava che ogni tanto qualche giovinastro maleducato si sedesse senza averne il diritto ed allora l’uomo con decisione  e piglio militare, chiedeva al passeggero di cedergli il posto.

Quel giorno era il 12 giugno, il suo settantesimo compleanno. Erano passati esattamente 42 anni, da quelle giornate tremende del 1942, e lui non aveva mai smesso di ricordare tutti i suoi commilitoni che non ce l’avevano fatta. Il suo pensiero volò a ritroso negli anni portandolo a quei giorni di giugno quando giovane tenente di vascello era imbarcato sul Cacciatorpediniere Ascari con la mansione di direttore del tiro. La sua mente scivolò  via, i suoi occhi aperti non videro più la gente accalcata nel bus, le sue orecchie non percepirono più il forte rumore del traffico e le chiacchiere delle persone a lui vicino. L’unico rumore che sentiva era quello dei marosi che frangevano contro le fiancate del Caccia che a 30 nodi, solcava le acque  agitate a largo dell’isola di Pantelleria. (Le forze armate dell’Asse erano dirette a contrastare le operazioni di rifornimento dell’isola di Malta condotte dalla Royal Navy britannica. ). Il mare forza 8 era trascinato da un vento in aumento costante. Lui, in tenuta da combattimento, si dirigeva verso la sua postazione di comando del tiro sul ponte superiore. Erano circa le 5 del mattino quando il radiotelegrafista aveva ricevuto un cablogramma inviato dalle forze aeree che avevano individuato il convoglio salpato da Gibilterra, che ormai si trovava a poche miglia di distanza e l’Ascari  e il Premuda che erano in testa alla formazione in perlustrazione, avevano ricevuto l’ordine di attaccare in attesa che sopraggiungessero gli incrociatori pesanti e le navi da battaglia che erano più indietro. Completamente fradicio raggiunse la torretta aprì il portellone e si calò nel vano sottostante. La fredda luce del faro puntato sul tavolo illuminava la carta nautica . Il guardiamarina che era già seduto di fronte alla feritoia di controllo lo salutò e gli disse che mancavano meno di  10 minuti al momento dell’incontro con le forze nemiche. Afferrò il microfono e si collegò con la plancia e con i cannonieri nelle loro postazioni. Chiamò sul canale criptato il pilota della ricognizione aerea per avere conferma della posizione del nemico. Il convoglio si trovava  a circa 19000 metri nord. Calcolò le coordinate e inviò al cannone a stella da 120mm i dati per il tiro. Il colpo partì un istante dopo e subito il tenente chiese conferma alla plancia. “Tiro corto, distanza stimata 17500 metri.” “Aumentare alzo  di 5 gradi, ridurre distanza dall’obiettivo! Macchine avanti tutta! Fuoco! “. Un filo di fumo nero in lontananza indicò che uno dei cacciatorpedinieri di scorta, forse il Partridge, era stato colpito ed era scoppiato un incendio a bordo. Non c’era esultanza nella dialettica tra la plancia e il centro del tiro, solo scarni comunicati sull’effetto che aveva avuto l’attacco. L’interno del compartimento in cui si trovavano i due militari era molto umido e il fumo delle sigarette rendeva l’aria irrespirabile. Dopo circa due ore di combattimento, il  tenente decise di uscire all’aperto a prendere una boccata d’ossigeno salmastro e dare un’occhiata col binocolo alla situazione. In lontananza il fumo denso dell’esplosione si mischiava con quello dell’incendio a bordo del Cacciatorpediniere e con i fumogeni utilizzati dagli inglesi.

La  risposta della Royal Navy non si fece attendere. Due aerosiluranti Bristol Beaufort attaccarono l’Ascari ma i siluri esplosero a distanza senza fare danni. Immediatamente fecero fuoco le mitragliere 20/65 che allontanarono le aerosiluranti che avevano fallito l’attacco. Dalla plancia arrivò l’ordine di ripiegare verso gli incrociatori che sopraggiungevano e quindi con una virata di 60 gradi la nave si diresse verso il Montecuccoli  a sud ovest. Erano circa le 6 del mattino  quando l’Ascari insieme ai Cacciatorpediniere Oriani e Premuda si diressero in soccorso del  Vivaldi in fiamme colpito da una cannonata che aveva scatenato un incendio nella sala macchine e diversi morti e feriti. Il tenente scese sul ponte inferiore e diede ordini per organizzare il  traino del caccia in difficoltà. Dopo circa un ora di navigazione in direzione di Pantelleria, l’imbarcazione colpita, per motivi tattici  fu passata al traino del caccia gemello Premuda che aveva più carburante a bordo e l’Ascari riprese il mare in direzione del convoglio britannico.

Ormai erano 24 ore che il tenente era di guardia e appoggiato sotto la torretta delle bocche del pezzo da 120 mm., sognava il momento in cui avrebbe potuto sorseggiare un caffè per togliersi dalle labbra il sapore amaro della polvere da sparo e del fumo delle ciminiere che pervadeva tutta la tolda. Nel frattempo il mare era diventato molto agitato e raffiche di vento portavano gli spruzzi in alto contro la plancia. La prua del caccia lanciato a tutta forza entrava rabbiosamente dentro le onde e le vibrazioni trasmesse allo scafo risuonavano nella testa del tenente che con la destra si teneva ad un supporto della torretta e con la sinistra cercava inutilmente di non far spegnere l’ennesima sigaretta di quella giornata interminabile.

Quando arrivò il colpo quasi non se ne rese conto. Il tettuccio della cabina del comando del tiro volò in mille pezzi. Le lamiere contorte delle pareti iniziarono a sbattere le une contro le altre in un frastuono assordante. Il guardiamarina che era all’interno o meglio quello che ne rimaneva, era spalmato sul tavolo insieme alle carte nautiche in un misto di carne e sangue e pezzi di materia cerebrale. Il tenente che si trovava a circa  10 metri dal punto di impatto, venne scaraventato contro la falchetta esterna e fu un miracolo se non volò giù dal ponte in mare. In quel mentre la nave, probabilmente a causa del colpo, sbandò vistosamente a dritta e una grossa ondata passò sopra la cabina del tiro portando con se quel che restava del poveretto. Arrancando e aggrappandosi con la forza della disperazione per non essere risucchiato in mare, il tenente arrivò in quel che restava della torretta e con circospezione si guardò attorno. Fortunatamente la deflagrazione non aveva danneggiato la radio e quindi potè comunicare con la plancia e  avvisare il comandante dei danni subiti. Nel frattempo però l’Ascari si stava portando sopravento al  convoglio che così non era più protetto dai fumogeni e quindi  aveva la possibilità di fare nuovamente fuoco sul nemico.  

L’ordine arrivò secco e conciso: rimanere ai posti  di combattimento. Procedere con le coordinate di tiro. Appena pronti fare fuoco. Durante le seguenti 12 ore e cioè dalle 18 alle 6 del mattino, il cacciatorpediniere scaricò un volume di fuoco enorme sul nemico oltre a sganciare  bombe di profondità per contrastare la presenza di sottomarini britannici che per due volte avevano tirato tre siluri contro le navi dell’Asse ed erano stati presi appunto in caccia dall’Ascari che li aveva costretti a ripiegare. Quando verso mezzanotte il tenente, rimasto solo nella cabina di tiro demolita dal colpo del giorno precedente, riuscì ad afferrare un caffè che gli venne portato dalla cambusa, realizzò in che stato si trovava. Erano ormai 36 ore che non mangiava e non beveva. Il suo corpo intrappolato dentro la tuta da combattimento fradicia gli mandava dei messaggi di dolore continuo. La schiena gli doleva da morire e tutte le giunture dai polsi alle anche alle ginocchia, si erano gonfiate per l’umidità costante. Il mare sempre molto agitato e la velocità con la quale navigava il caccia  e il procedere a zig zag per rendere difficile il tiro al nemico, comportavano l’entrata di marosi nella torretta del tiro mezza distrutta.

Pensava alla sua giovane moglie, la sua “fragoletta”, sposata quasi due anni prima e con la quale grazie alla guerra non aveva trascorso che pochi giorni. Tra un permesso di poche ore e un breve congedo, si erano potuti incontrare là dove la nave approdava e dove sua moglie correva in treno o con qualsiasi mezzo per poterlo vedere anche per pochi preziosi minuti. Da Napoli, a Taranto, ad Augusta, a La Spezia, ad Ancona, a Trieste….ovunque la nave facesse scalo per rifornimento, riparazioni, approvvigionamento munizioni. E il ricordo di quei pochi istanti gli riempiva il cuore di dolcezza e nostalgia, mentre tutto intorno l’acre odore della morte aleggiava ovunque posasse lo sguardo. La consapevolezza che poteva esserci stato anche lui a fianco del compagno sbriciolato dal colpo della sera prima , insieme ad una buona dose di fatalismo e  alla fede che aveva in Dio, lo accompagnarono durante tutto il giorno e la notte seguente.  

Quando arrivò l’ordine da parte del comando di Supermarina di abbandonare il teatro delle operazioni, all’Ascari fu assegnato il compito di scortare il caccia Vivaldi al traino del Premuda, verso l’isola di Pantelleria. Il tenente prima di uscire dalla disastrata torretta di tiro e salire in plancia comando, si guardò intorno e vide che in un angolo per terra, incastrata tra un bullone sporgente e la parete, c’era qualcosa che luccicava. Si chinò per raccogliere l’oggetto e si rese conto che si trattava della catenina con il cartellino recante il nome e le informazioni relative al povero guardiamarina perito nell’attacco della sera precedente. Probabilmente nell’esplosione era stata scaraventata lì sotto e agganciandosi ad un appiglio non era scivolata via insieme alle ondate che avevano ripulito il pavimento a più riprese. La raccolse con trepidazione e se la mise nel taschino della tuta. Avrebbe provveduto lui stesso a consegnarla ai familiari del poveretto durante la prossima licenza…..se ci fosse arrivato vivo!

Per l’abnegazione ed il coraggio dimostrati, al tenente di vascello fu conferita a Napoli, il 25 Giugno, da Benito Mussolini, la Medaglia di Bronzo al Valor Militare con le seguenti motivazioni:

“Direttore del Tiro sul Cacciatorpediniere Ascari, impegnato in un lungo, aspro, vittorioso combattimento, dirigeva con calma e serenità il tiro della propria unità, impegnata con forze prevalenti, contribuendo validamente al buon risultato del combattimento”.

E il 15 aprile del 1943 la Croce di Guerra al Valor Militare con le seguenti motivazioni:

“Direttore del tiro sul Cacciatorpediniere Ascari di scorta a convoglio, attaccato da sommergibile e da aerei nemici, nel corso delle operazioni notturne di salvataggio dei naufraghi di un piroscafo colpito, reagiva con calma e prontezza con le armi di bordo contro i reiterati attacchi avversari, riuscendo col tiro ben diretto ed efficace a sventare tutti i tentativi di offesa contro la nave. Dava così prova di cospicue qualità militari e di serena noncuranza del pericolo”.

Era riuscito a passare indenne tra le maglie serrate dei colpi  che piovevano dall’alto e dal basso, a schivare la morte in mille occasioni, a guardarla da vicino fin negli occhi: come recitava la canzone dei sommergibili, “andar pel vasto mar ridendo in faccia a Monna Morte ed al destino”….

Con la sua Fragoletta era riuscito a formare una bella famiglia, ad avere due figli ed a vivere una vita modesta e felice incontrandosi quando possibile con gli altri ex commilitoni che avevano avuto  lo stesso destino, quello di non precipitare negli abissi del mediterraneo. 

L’autobus frenando bruscamente, fece sobbalzare l’uomo che, socchiuse per un attimo gli occhi, quasi stupito di trovarsi lì. Scese  al capolinea di Piazza Capri, si incamminò verso casa, e per la millesima volta pensò di essere stato baciato dalla fortuna.

Quell’uomo era mio padre.

Fabrizio De Robertis

Di the milaner

foglio informativo indipendente del giornale

Un pensiero su “Memorie dalla battaglia di Pantelleria”
  1. Trovo straordinario il fatto che io ho conosciuto l’autore di questa Memoria, Fabrizio de Robertis, in modo del tutto casuale su Facebook. Dopo poco tempo io parlai di mio Padre, Comandante di Macchina, Maggiore del Genio Navale Silvio Dossi… I nostri due Padri furono così vicini e uniti in una tragedia sul mare così densa di avvenimenti umani… Mio Padre sopravvisse incolume per puro caso alla bordata inglese che colpì l’Ugolino Vivaldi sotto la linea di galleggiamento distruggendo del tutto la sala propulsori 1 mentre mio Padre con gli uominu rimasti restò piu’ di 9 ore a domare l’incendio riuscendo a riavviare l’altra sala macchine, mentre la Nave si portava fuori dalla linea di tiro inglese proprio come descritto dal racconto . Mio Padre non ne parlò mai con molti particolari. Una Medaglia d’Argento al Valor Militare gli fu consegnata nella stessa occasione. Ma il ricordo dei compagni ufficiali e marò morti nella Sala Macchine 1 lo accompagnò tutta la vita…

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