dai racconti di Fabrizio De Robertis
Avevo avuto contatti, dopo il rientro dal Madagascar, con dei miei ex colleghi di lavoro per riprendere ancora una volta il cammino delle commesse all’estero. Dopo aver passato alcuni mesi in Italia a leccarmi le ferite per quanto era successo a Nosy Be, che aveva lasciato nel mio morale delle tracce indelebili, ed aveva sollevato maretta tra la mia famiglia e quella di mio cugino Paolo, grazie ad un amico della Astaldi, ero entrato in contatto con una società che operava in Libia.
Nel frattempo avevamo preso in affitto un casale in Umbria e ci stavamo preparando alla partenza. Il pennuto che avevamo riportato da Nosy Be si era poi rivelato essere un aquila marina ed era cresciuto tanto nelle ultime settimane diventando a causa dell’imprinting un uccello domestico. Avevo iniziato ad insegnargli a volare e viveva libero in casa stabilendo con Pippo un rapporto molto particolare ( di supremazia!). Ci eravamo affezionati moltissimo a questo animale anche perché era tutto quello che ci era rimasto dell’avventura malgascia finita male. Quindi quando durante una sua incursione su un tavolino del nostro salotto in pochi istanti trangugiò gli undici pallini di una dama cinese che, ironia della sorte, avevamo comprato per ricordo nel mercato di Antananarive, Grisoù, così lo avevamo chiamato, si ammalò, e dopo un agonia di alcuni giorni e nonostante fossimo riusciti a fargliene espellere 10, ci morì in braccio, per avvelenamento da piombo. Infatti i maledetti pallini non erano come avrebbero dovuto essere delle pietre dure una diversa dall’altra, bensì erano verniciati. Ma questo noi non potevamo saperlo. Ancora oggi ripensandoci, a distanza di tanto tempo, provo una tristezza infinita.
La Libia era un paese complicato, quindi decidemmo che sarei andato giù da solo almeno per i primi tempi. Cristina mi avrebbe raggiunto in un secondo momento, e comunque dato che il mio incarico era quello di direttore generale della filiale della S.I.I. a Tripoli e che la filiale ancora non esisteva e bisognava iniziare tutto da 0, avrei dovuto rientrare spesso in Italia prima di stabilirmi in maniera continuativa in Libia una volta che i lavori fossero incominciati.
L’atmosfera che si respirava a Tripoli non è facile da definire. Da un lato la città tutta affacciata sulla baia, con le sue case bianche e il suo lungomare ordinato. Dall’altro, lo straniero occidentale non è molto benvoluto dai libici. Loro si considerano degli esseri superiori , ed infatti la mano d’opera, mi riferisco alla bassa manovalanza, è costituita in prevalenza da egiziani, tunisini, marocchini, algerini , filippini magari, ma mai da libici. Loro coprono i quadri intermedi e di comando ed infatti uno degli incarichi che io avevo era quello di cercare il personale per i cantieri che dovevamo aprire, uno ad Azzawya vicino Tripoli e l’altro a Marsa el Brega vicino a Bengasi. Avevo incaricato un collega che si occupava di acquisti in ditta, di contattare i famosi cercatori di teste, così venivano definiti, gli intermediari che procacciavano operai. Assumemmo quindi circa 150 filippini e 25 portoghesi per completare l’organico dei due cantieri. Poi sul posto dovetti assumere dell’altra manovalanza, già presente in loco, prevalentemente egiziani. Un personaggio molto particolare, era il cosiddetto “ufficiale di collegamento”. Cioè per poter operare in Libia, era necessario che ci fosse un libico che facesse da tramite tra l’impresa e le istituzioni locali e si occupasse di intermediazione con il cliente che nel nostro caso era il Ministero del petrolio. Infatti la S.I.I. si occupava principalmente di costruzioni e di manutenzione nell’ ambito delle raffinerie. Penso che sia superfluo spiegare quale era il vero ruolo di questo individuo che, scelto dallo sponsor del governo libico, che aveva fatto concludere il contratto alla società, e che aveva intascato una bella mazzetta, manteneva il controllo su di noi ( principalmente su di me), seguendo passo passo tutta l’evoluzione dei cantieri. Il soggetto in questione si chiamava Salah El Fandi e si rivelò un gran figlio di puttana.
Sulla trentina, alto forse 1,70, nettamente sovrappeso, viso rovinato dall’acne, baffetti radi e pizzetto altrettanto, sudava come un maiale ed aveva sempre le camicie con larghi aloni sotto le ascelle. Parlava perfettamente in italiano e aveva un tono di voce stridulo. Cercava di farsi benvolere dipingendomi la sua città e la sua nazione come le più belle del mondo auspicando che io potessi restare a Tripoli per molti anni. All’inizio, quando ero arrivato la prima volta all’aeroporto accompagnato dal AD della società che me l’aveva presentato, era rimasto sulle sue senza scoprirsi e quindi avevo accettato di buon grado la sua compagnia. Tra l’altro era lui che si occupava di tutta la parte burocratica rendendomi la vita ( povero illuso) molto più semplice. A partire dal passaporto che consegnai nelle sue mani all’arrivo e che rividi solo al momento di imbarcarmi per il primo rientro in Italia 15 giorni dopo. Ma questo purtroppo era il metodo utilizzato dalla polizia libica per controllarti. Lui era solo un emissario e faceva ciò che gli veniva detto di fare. E comunque non è una bella sensazione non avere il passaporto a portata di mano se decidi che te ne vuoi andare da un momento all’altro. In realtà questo meccanismo( lo stesso avveniva per tutti gli operai italiani che arrivavano in Libia) serviva per ricattare le imprese nel caso ci fossero dei contenziosi durante i lavori, in quanto così i libici potevano bloccare le partenze del personale espatriato. Salah con me si comportava bene, aiutandomi nei rapporti con la controparte del ministero del petrolio e prodigandosi con le varie istituzioni per snellire le pratiche, dall’importazione di macchinario in dogana, all’assunzione del personale in loco, etc. La sua gentilezza arrivò al culmine il giorno in cui mi cedette la sua casa, situata in campagna ad alcuni km da Tripoli, quando dovendo arrivare Cristina per raggiungermi dopo alcuni mesi, cercavo una soluzione diversa piuttosto che l’Hotel Kebir oppure una camera sopra l’ufficio nella casa dove avevamo aperto la filiale a Gargaresh un sobborgo di Tripoli Quella era, diceva , la sua seconda casa , e non ne aveva bisogno. Quindi me la cedette alla modica cifra di 1000 dinari al mese.( più di 2 milioni delle vecchie lire). L’abitazione, su un solo piano, era una villetta circondata da un alto muro di cinta. Svariati alberi di eucaliptus la ombreggiavano e all’intorno non c’erano vicini. Sembrava essere la soluzione ideale. Tutti i mobili li avevamo importati dall’Italia, scelti accuratamente insieme a tutta l’attrezzatura per la cucina da Cristina che a Roma si era prodigata insieme all’impiegato dell’ ufficio acquisti a scegliere tutto il necessario dalla A alla Z. Io partivo da casa la mattina prestissimo per recarmi in cantiere ad Azzawya e Cristina restava da sola tutto il giorno. Avevamo assunto una donna marocchina che veniva a casa per svolgere i lavori di pulizia e soprattutto per accompagnare Cristina quando doveva recarsi a Tripoli per acquistare il cibo al mercato. Avevo comprato una utilitaria affinché lei fosse indipendente ma era impensabile che potesse aggirarsi da sola in auto per poi recarsi in città. Quindi la presenza di una donna che peraltro parlava arabo che la accompagnasse era fondamentale.
Quando le due donne uscivano, i libici superavano l’auto di Cristina e quando si accorgevano che alla guida c’era una donna e per giunta occidentale, la stringevano per buttarla fuori strada e la insultavano in tutti i modi con gesti e parolacce. Quando camminavano per il mercato era un continuo essere apostrofate e derise dagli uomini che spesso cercavano di disturbarle sessualmente. D’altronde, non è che la mia presenza cambiasse le cose. Un giorno che eravamo andati in centro a Tripoli perché mi dovevo recare in banca per prendere dei documenti, di fronte al portone principale due giovani libici, si erano avvicinati con il chiaro intento di un approccio ed avevano visto benissimo che io ero lì poco distante. Il grido di Cristina mi aveva fatto sobbalzare ma i due erano già scappati mescolandosi alla folla. Un altro tipo di problema cominciò a verificarsi allorquando dopo un paio di settimane che ci eravamo istallati nella nuova abitazione, dopo che io al mattino ero partito, dei ragazzi, issandosi gli uni sugli altri cercarono di scavalcare il muro di cinta della casa . Dovetti assumere un guardiano che pattugliasse la casa. Avevamo montato il campo base a circa un km dalla raffineria in un’area che ci era stata concessa dalla municipalità di Azzawya. Nel campo c’erano gli operai portoghesi che erano gli specializzati, alcuni italiani tra cui 5 assistenti, un amministrativo ed un capo cantiere. I manovali erano quasi tutti egiziani. Le prime avvisaglie che Salah fosse un gran paraculo e soprattutto pericoloso, le ebbi quando iniziammo a cercare di organizzare la mensa. Avevo incaricato un collega italiano di verificare i prezzi del mercato all’ingrosso per fare una proiezione dei costi che avremmo dovuto sostenere per il catering. Avendo già tutta l’attrezzatura, la cucina industriale e tutte le suppellettili che avevamo recuperato da altri cantieri della S.I.I. ormai terminati, era sufficiente ingaggiare un paio di cuochi per iniziare ad utilizzare la mensa. Ma Salah aveva altre idee. Voleva procacciare lui la materia prima, con dei costi che erano superiori del 70/80 %. E questo per intascare un bel po’ di denaro a scapito della società. ( così credevo io..). Un bel giorno arrivò a casa verso le 22 dicendomi che aveva realizzato un contratto di fornitura con una società di catering e che quindi già dalla settimana successiva, avrebbero iniziato a fornirci i pasti. Mi disse Inoltre che il proprietario di questa società (successivamente compresi che era lui), mi omaggiava di 1000 dinari come bonus di inizio collaborazione. Tirò quindi fuori da una busta il contante e lo appoggiò sul tavolo. Gli dissi che ne avrei parlato con la direzione a Roma e che gli avrei fatto sapere nei giorni seguenti. In realtà volevo denunciare il fatto al AD perché era un evidente tentativo di corruzione nei miei confronti. La risposta che ebbi fu laconica: “architetto ha fatto bene ad avvisarci, metta da parte i soldi, ma non dica nulla a Salah di questa conversazione”. Il che cominciò a non piacermi affatto. Dovetti quindi accettare la società di catering che aveva proposto Salah e non potei oppormi. Col passare del tempo in svariate occasioni mi resi conto che venivo scavalcato perché esisteva un filo diretto tra il libico e l’amministratore delegato. Cominciai ad entrare in allarme perché rischiavo di diventare il capro espiatorio nel caso fosse successo qualcosa. La guerra era cominciata.