I risultati di una ricerca scientifica appena pubblicati su Nature Geoscience gettano un’ombra ancora più inquietante sul clima del futuro. E spiega l’insolito caldo di questi giorni di primavera anticipata
Siamo a fine febbraio e l’Europa occidentale è sotto le grinfie dell’anticiclone Frauke. Lo si nota dalle temperature insolitamente miti su gran parte del continente. Oggi, penultimo giorno del mese di febbraio, molte località di pianura nel Nord e Centro Italia hanno fatto registrare temperature massime superiori ai 20 °C, talora aggiornando qualche record locale per il mese di febbraio. In Galles è saltato addirittura il record nazionale, con oltre 21 °C.
Le anomalie appaiono ancora più vistose se si sale in alta quota. Ad esempio, sulle Alpi Graie in Piemonte, nella stazione ARPA di Lago Agnel (a 2300 m di quota), il termometro non scende sotto zero da quasi tre giorni consecutivi, pur essendoci sotto la capannina uno spessore di oltre un metro di neve al suolo. Anche la stazione più in alto, sulla cima della Gran Vaudala (a oltre 3200 m di quota) ha fatto registrare una massima di oltre 7 °C.
Sono solo due dei numerosissimi esempi che si potrebbero citare. I ghiacciai alpini fondono quindi abbondantemente già a febbraio, ed a fronte di un inverno non particolarmente abbondante in neve, queste caldazze suscitano parecchia preoccupazione.
Colpa del cambiamento climatico? In realtà, no: i dati di oggi sono dovuti alla presenza dell’anticiclone. Però gli anticicloni c’erano anche un secolo fa, e non si raggiungevano temperature simili. Il clima che cambia non influisce sul singolo evento, ma il cambiamento si manifesta con l’incremento vertiginoso della frequenza con cui si vedono anomalie mostruose di temperatura in pieno inverno, sia in pianura che in alta quota.
È proprio per la maggiore frequenza e intensità di episodi di fusione anticipata come questo che i ghiacciai alpini sono purtroppo inevitabilmente destinati a estinguersi nel futuro.
Ma in questi giorni i risultati di una ricerca scientifica appena pubblicati su Nature Geoscience gettano un’ombra ancora più inquietante sul clima del futuro. Un team di fisici del clima affiliati al California Institute of Technology ha eseguito una serie di esperimenti incentrati sul ruolo delle nubi stratocumuliformi nella modulazione del clima futuro.
Gli stratocumuli sono nubi perlopiù composte da finissime goccioline d’acqua, e d’inverno o alle alte latitudini anche da piccoli cristalli di ghiaccio; occupano il primo terzo della troposfera (la porzione di atmosfera in cui avvengono i fenomeni meteorologici, cioè i primi tre chilometri circa).
I risultati hanno mostrato una forte sensibilità della quantità di nubi al crescere della temperatura media globale, sotto l’effetto delle crescenti concentrazioni di biossido di carbonio (CO2). In particolare, oltre una certa soglia la nuvolosità di stratocumuli tenderebbe a diminuire drasticamente, senza venire sostituita da altri tipi di nubi, lasciando il cielo libero.
Gli scienziati hanno riflettuto sulla plausibilità fisica di questo risultato ed hanno concluso che potrebbe trattarsi di un tipo di feedback positivo e molto forte finora non considerato.
Sono solo due dei numerosissimi esempi che si potrebbero citare. I ghiacciai alpini fondono quindi abbondantemente già a febbraio, ed a fronte di un inverno non particolarmente abbondante in neve, queste caldazze suscitano parecchia preoccupazione.
Colpa del cambiamento climatico? In realtà, no: i dati di oggi sono dovuti alla presenza dell’anticiclone. Però gli anticicloni c’erano anche un secolo fa, e non si raggiungevano temperature simili. Il clima che cambia non influisce sul singolo evento, ma il cambiamento si manifesta con l’incremento vertiginoso della frequenza con cui si vedono anomalie mostruose di temperatura in pieno inverno, sia in pianura che in alta quota.
È proprio per la maggiore frequenza e intensità di episodi di fusione anticipata come questo che i ghiacciai alpini sono purtroppo inevitabilmente destinati a estinguersi nel futuro.
Le temperature in Europa mercoledì 27 febbraio 2019.
Ma in questi giorni i risultati di una ricerca scientifica appena pubblicati su Nature Geoscience gettano un’ombra ancora più inquietante sul clima del futuro. Un team di fisici del clima affiliati al California Institute of Technology ha eseguito una serie di esperimenti incentrati sul ruolo delle nubi stratocumuliformi nella modulazione del clima futuro.
Gli stratocumuli sono nubi perlopiù composte da finissime goccioline d’acqua, e d’inverno o alle alte latitudini anche da piccoli cristalli di ghiaccio; occupano il primo terzo della troposfera (la porzione di atmosfera in cui avvengono i fenomeni meteorologici, cioè i primi tre chilometri circa).
I risultati hanno mostrato una forte sensibilità della quantità di nubi al crescere della temperatura media globale, sotto l’effetto delle crescenti concentrazioni di biossido di carbonio (CO2). In particolare, oltre una certa soglia la nuvolosità di stratocumuli tenderebbe a diminuire drasticamente, senza venire sostituita da altri tipi di nubi, lasciando il cielo libero.
Gli scienziati hanno riflettuto sulla plausibilità fisica di questo risultato ed hanno concluso che potrebbe trattarsi di un tipo di feedback positivo e molto forte finora non considerato.
Questo effetto potrebbe spiegare anche la maggiore intensità di periodi di forte e rapido riscaldamento del pianeta avvenuti nel passato (come quello del PETM, il Massimo Termico del Paleocene-Eocene) rispetto a quanto ricostruito finora dai modelli di paleoclima. Gli studiosi hanno ipotizzato che questo effetto possa iniziare a verificarsi quando le temperature globali oltrepasseranno l’anomalia di 4 °C rispetto ai valori preindustriali, o quanto meno tra 4 e 6 °C.
Più aumenta il caldo più scompaiono le nuvole
È inutile sottolineare che, in un mondo più caldo e più ricco di vapore acqueo che non riesce a condensare e formare nubi, l’effetto serra aumentarebbe ulteriormente (ecco il feedback), e inoltre la mancanza di nubi aumenterebbe ulteriormente la capacità di assorbimento della radiazione solare da parte del sistema terra-atmosfera. Col risultato di temperature ancora maggiori.
Questo soprattutto quando non si può non accorgersi che, a dispetto di qualche episodio di freddo molto localizzato e di breve durata, che riempie i quotidiani e provoca il borbottio di qualche negazionista climatico (talora anche famoso, come nel caso dei tweet di un certo presidente biondo), la terra continua imperterrita a sfornare annate globalmente calde, anno dopo anno.
Il lato positivo è che ci resta ancora tempo per provare a limitare il riscaldamento. Ma non troppo. Anche perché, per citare le parole del celebre climatologo Michael Mann, anche due soli gradi di riscaldamento globale sono già in grado di causare danni molto seri, sia a noi esseri umani (economici ma anche perdite di vite umane e sofferenza) che agli ecosistemi. Un motivo in più, quindi, per agire il prima possibile.