Joshua Bell è un celebre violinista e direttore d’orchestra americano, cinquantenne dell’Indiana, che l’anno scorso esordì alla Scala con un acclamato concerto in cui – accompagnato da Daniel Harding sul podio della Swedish Radio Symphony Orchestra, ospite della Filarmonica – eseguì Poème di Ernest Chausson per violino e orchestra e Tzigane di Maurice Ravel nella versione per violino e orchestra. Era dunque molto atteso in città dai tanti che, attratti dalla sua fama, volevano ascoltarlo suonare in recital, magari con un programma importante. E l’altra sera è infatti è tornato a Milano invitato dalla Società del Quartetto per eseguire, accompagnato dal quarantaseienne pianista inglese Sam Haywood, tre Sonate per violino e pianoforte: di Mozart (K. 454 in si bemolle maggiore), di Richard Strauss (opera 18 in mi bemolle maggiore) e di Gabriel Fauré (numero 1 opera 13 in la maggiore) alle quali ha aggiunto, in bis, la “Danza ungherese n. 1” di Brahms e la “Polonaise brillante n. 1” di Wieniawski. Davanti a una sala stracolma i due hanno raccolto un successo strepitoso ma, a mio giudizio, decisamente superiore al loro merito.
Di Bell, in una di queste rubriche di 5 anni fa, scrivevo che “ha iniziato a suonare il violino all’età di cinque anni e a quattordici già esordiva come solista con la Philadelphia Orchestra diretta da Riccardo Muti. Ha vinto un bel po’ di premi, fra cui il Grammy Award, e dal 2011 è il direttore stabile dell’orchestra dell’Accademia di Saint Martin in the Fields. Aveva quarant’anni nel 2007 quando un giornalista del Washington Post, tale Weingarten, organizzò e gli propose un esperimento curioso e molto intrigante: nell’ora di punta del mattino lo fece suonare in incognito nell’atrio di una stazione della metropolitana della capitale, con il cappello posato in terra davanti a sé per raccogliervi le offerte, proprio come un accattone. Con il suo Stradivari del 1713 che vale 3,5 milioni di dollari Bell ha suonato Bach, Schubert (l’Ave Maria), Ponce, Massenet e poi ancora Bach; pezzi difficilissimi che, facendo registrare il tutto esaurito, aveva eseguito appena due sere prima nella Symphony Hall di Boston dove, per un solo posto, bisognava sborsare mediamente 100 dollari. L’evento venne videoregistrato con una telecamera nascosta e così si vide che, di oltre 1.000 persone transitate davanti a lui, solo 7 si fermarono brevemente ad ascoltare e solo una lo riconobbe; in quasi 45 minuti Bell raccolse poco più di 30 dollari da poco meno di 30 passanti. Per inciso, l’articolo su questo esperimento fruttò a Weingarten il premio Pulitzer del 2008!”
Bell ha un’ottima tecnica: il suono – grazie anche a quello strepitoso Stradivari da 3,5 milioni di dollari! – è limpido, sa essere sussurrante e potente, ha un’intonazione precisissima, un fraseggio morbido e sempre appropriato, conosce ed usa lo strumento in modo perfetto e con grande disinvoltura. Di più, con esagerati movimenti del corpo, “descrive” la musica mentre la suona, quasi a volerla comunicare fisicamente. Perfino troppo, tanto che – se si vuole evitare che l’ascolto venga fuorviato dalla sua esuberanza – non bisogna guardarlo. Anche il pianista indulge in qualche eccesso di trasporto fisico, ma fortunatamente molto meno accentuato.
Non è tanto l’esibita esuberanza fisica, però, ad aver lasciato perplessi quanto la scelta del programma (che sembrava in continuità con quello della Scala) ed il loro aderirvi quasi ideologico: l’unico pezzo scritto da un musicista maturo (benché avesse solo 28 anni!) è quello di Mozart che però, a suo stesso dire, lo scrisse “in gran fretta” per l’allora famosissima virtuosa italiana Regina Strinasacchi, di passaggio a Vienna, alla quale consegnò il manoscritto solo il giorno prima del concerto. Questa, penultima delle oltre 40 sonate per violino e pianoforte scritte da quel genio, non è la migliore e per giunta è stata eseguita con eccessiva velocità dal duo Bell-Haywood, tanto che nell’Allegretto dell’ultimo movimento (dunque non in un Presto, e neppure in un Allegro!) il pianista si è trovato in palesi difficoltà. Le altre due sonate sono entrambi opere giovanili e anch’esse non possono essere annoverate fra i capolavori dei loro autori: poco ispirata l’opera 18 di Richard Strauss (una sbiadita ricerca di un ventitreenne ancora immerso fra le poetiche di Brahms e di Dvořák) e non molto più convincente l’opera 13 del trentenne Gabriel Fauré di cui si salva appena lo Scherzo del terzo movimento.
Quando poi, alla fine del concerto, il nostro duo ha proposto per bis una Danza ungherese e una Polonaise brillante, si sono capite molte cose: hanno manifestato con chiarezza che il loro sentire è sostanzialmente tzigano e che hanno un penchant per il genere musicale coltivato da Goran Bregović piuttosto che per il genere classico o romantico. Bravissimi dunque, ma troppo lontani da quella aspirazione al sublime e al metafisico che siamo abituati ad inseguire con i grandi interpreti della nostra amata musica “alta”.