Dalle periferie di Milano continuano a giungere a Giuseppe Sala richieste di intervento tendenti a riqualificarne la vita,ma ciò che viene fatto è lento e di bassa qualità, forse ci vorrebbe un assessore alla partita “periferie” ma Sala non vuole ridimensionare le competenze di altri assessori.
A Sala, se un rimprovero gli si può fare è di aver fatto i conti senza l’oste o meglio gli osti: da un lato senza avere in cassa e certamente disponibili i 356 milioni annunciati nel documento programmatico “Fare Milano” e dall’altra l’inerzia delle procedure burocratiche che rallentano fino allo spasimo la maggior parte degli interventi previsti perché sono di natura edilizia: mettere un mattone sopra l’altro la mano pubblica è sempre una sfida che naufraga sugli appalti.
Il problema dei finanziamenti è cruciale: per il momento sono certi, ma non ancora in cassa, 38 milioni europei dal Pon infrastrutture (*), 10 milioni dal Patto per Milano, 9 milioni europei dalla Por (Programma operativo regionale), 18 milioni dal Piano Periferie attinti del fondo nazionale di 500 milioni: dunque ne mancano 280 e forse sarebbe lodevole se Bussolati si desse da fare per trovarli e dare una mano a Sala.
Qualche altra considerazione si può fare. Le cinque aree di intervento previste – QT8 Gallaratese, Niguarda Bovisa, Adriano Padova Rizzoli, Corvetto Chiaravalle Porto di mare e Giambellino Lorenteggio – guardandole sulle planimetria allegata al progetto, non possono essere definite “periferia” nell’accezione corrente del termine (zone lontane dal centro e penalizzate in ogni aspetto da questa lontananza), tre su cinque lambiscono addirittura il Municipio 1. Probabilmente la perimetrazione di queste aree è stata definita tenendo prevalentemente conto del disagio sociale, dell’emarginazione e di altre criticità acute.
Che il criterio del disagio sociale e della sua geolocalizazzione fosse essenziale per definire le politiche cittadine lo aveva già capito Paolo del Debbio nel 2000, come assessore di una Giunta Albertini, incaricando il sociologo Guido Martinotti di realizzare un “Atlante delle Periferie” che a questo disagio assegnò i luoghi e contemporaneamente censì e localizzò le strutture pubbliche che proprio a questo disagio fungono da argine.
Queste considerazioni ci portano a pensare altre cose e forse altre strategie che in qualche modo potrebbero servire a indicarne le priorità.
Il disagio urbano negli ultimi anni sembra essere legato a precisi fenomeni: spaccio di droga, malavita organizzata e piccola criminalità di strada, risse e confronti tra gruppi con velleità di controllo del territorio, occupazioni abusive, appropriazione da parte di pochi di spazi pubblici e di verde, vandalismo nei quartieri di edilizia pubblica, per dirla in una parola sola: mancanza grave di controllo del territorio da parte delle autorità e di conseguenza della pubblica amministrazione.
So benissimo che contrastare questi fenomeni non è né semplice né facile perché richiede il coordinamento di molti soggetti, ognuno dei quali ha dinamiche e obiettivi propri e non solo ma occorre che la sinistra elabori al suo interno convinzioni condivise, sciogliendo il nodo tra repressione e integrazione, perché molti dei fenomeni di disagio sono legati alla forte immigrazione dell’ultimo periodo.
La soluzione dei problemi di disagio non può comunque essere affidata principalmente a interventi edilizi o di risanamento e ristrutturazione perché gli effetti si sentiranno solo tra qualche anno e sempreché le risorse economiche arrivino.
Qualcosa di visibile si deve fare subito.
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